Arendt, Pensiero e conoscenza

In questa lettura Hannah Arendt analizza le differenze che esistono fra il pensare, i processi conoscitivi veri e propri e il ragionamento logico.

 

H. Arendt, Vita activa, trad. it. a cura di F. Finzi, Bompiani, Milano, 1964, pagg. 179-181

 

Pensiero e cognizione non sono la stessa cosa. Il pensiero, la sorgente delle opere d’arte, si manifesta senza trasformazione o trasfigurazione in ogni grande filosofia, mentre principale manifestazione dei processi conoscitivi, per i quali acquistiamo e accumuliamo nozioni, sono le scienze. La conoscenza persegue sempre uno scopo definito, che può essere posto da considerazioni pratiche come dalla “curiosità oziosa”; ma una volta raggiunto tale scopo, il processo conoscitivo è finito. Il pensiero invece non ha uno scopo fuori di sé, e non produce nemmeno risultati; non solo la filosofia utilitaristica dell’homo faber, ma anche gli uomini d’azione e gli amanti dei risultati nelle scienze non si sono mai stancati di indicare come sia del tutto “inutile” il pensiero, inutile come le opere d’arte che ispira. E nemmeno a questi prodotti inutili può appellarsi il pensiero, perché essi come i grandi sistemi filosofici non possono a rigore essere chiamati i risultati del puro pensiero; perché è proprio il processo del pensiero che l’artista o il filosofo deve interrompere e trasformare per la reificazione materializzante della sua opera.

L’attività del pensiero è altrettanto infaticabile e ricorrente che la vita stessa, e la questione se il pensiero abbia di per sé un significato è lo stesso insolubile enigma del significato della vita; i suoi processi permeano l’intera esistenza umana cosí intimamente che il suo inizio e la sua fine coincidono con l’inizio e la fine della vita umana stessa. Il pensiero, quindi, sebbene ispiri la piú alta produttività mondana dell’homo faber, non è in alcun modo la sua prerogativa; si afferma come sua fonte di ispirazione solo dove egli supera se stesso, per cosí dire, e comincia a produrre cose inutili, oggetti non legati a esigenze materiali o intellettuali, alle necessità fisiche dell’uomo non meno che alla sua sete di conoscenza. La conoscenza, d’altra parte, appartiene a tutto, e non solo ai processi operativi intellettuali o artistici; come la fabbricazione, essa è un processo che ha un inizio e una fine, di provata utilità, che fallisce se fabbrica un tavolo con due gambe. I processi conoscitivi nelle scienze non si discostano sostanzialmente dalla funzione della conoscenza nella fabbricazione; i risultati scientifici prodotti attraverso tali processi si aggiungono alla sfera dell’artificio umano come tutte le altre cose.

Sia il pensiero che la conoscenza, inoltre, devono essere distinti dalla facoltà di ragionamento logico che si manifesta in tali operazioni in forma di deduzione da asserzioni assiomatiche o immediate, di subordinazione di casi particolari sotto regole generali, di tecniche per derivare coerenti catene di conclusioni. In questo tipo di facoltà umane ci troviamo di fronte a una sorta di potere del cervello che sotto piú di un aspetto rassomiglia moltissimo alla forza lavoro che l’animale umano sviluppa nel suo metabolismo con la natura. Noi chiamiamo usualmente intelligenza i processi mentali che si alimentano della forza cerebrale, e questa intelligenza può essere misurata da test, come la forza fisica da altri espedienti. Le loro leggi, le leggi della logica, possono essere scoperte come le altre leggi di natura perché sono radicate nella struttura del cervello umano, e posseggono, per l’individuo normalmente sano, la stessa forza costruttiva delle impellenti necessità che regolano le altre funzioni del corpo. È nella struttura del cervello umano d’essere costretti ad ammettere che due e due fanno quattro.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. IV, pagg. 695-696