Arendt, Sulla tirannide

Rifacendosi a Montesquieu, Hannah Arendt analizza le caratteristiche di quel particolare tipo di potere che si chiama tirannide e ne mette in evidenza l’aspetto dell’isolamento.

 

H. Arendt, Vita activa, trad. it. a cura di F. Finzi, Bompiani, Milano, 1964, pagg. 211-218

 

Piú importante è una scoperta fatta, per quanto ne so, solo da Montesquieu, l’ultimo pensatore politico che si occupò seriamente del problema delle forme di governo. Montesquieu comprese che la caratteristica precipua della tirannia era quella di riposare sull’isolamento – sull’isolamento del tiranno dai suoi soggetti e dei soggetti fra di loro per effetto del reciproco timore e sospetto – e quindi che la tirannia non era una forma di governo fra le altre, ma contraddiceva la condizione umana essenziale della pluralità, dell’agire e parlare insieme, che è la condizione di tutte le forme di organizzazione politica. La tirannia impedisce lo sviluppo del potere, non solo in un settore particolare del dominio pubblico ma nella sua integrità; genera, in altre parole, impotenza come altri corpi politici generano potenza. Si rende cosí necessario, secondo Montesquieu, assegnarle una posizione speciale nella teoria delle forme politiche: essa sola è incapace di sviluppare abbastanza potere da rimanere nello spazio della “presenza”, il dominio pubblico, al contrario, sviluppa i germi della propria distruzione dal momento in cui comincia a esistere.

Il potere preserva il dominio pubblico e lo spazio della presenza, ed è quindi la linfa vitale del mondo artificiale umano, il quale se non è scena di azione e discorso, della trama delle cose e delle relazioni umane e delle storie da esse generate, manca della sua ultima ragion d’essere. Se non entrasse nei discorsi degli uomini e non costituisse il loro orizzonte, il mondo non sarebbe un artificio umano ma un ammasso di cose irrelazionate, libero restando ogni individuo isolato di aggiungervi un oggetto di piú; senza un mondo dell’artificio umano, le faccende umane sarebbero fluttuanti, futili e vane come il vagabondare di tribú nomadi. La saggezza malinconica dell’Ecclesiaste – “Vanità delle vanità; tutto è vanità... Non c’è nulla di nuovo sotto il sole... non resta memoria delle cose antiche, ma neppure di quelle che sono per accadere vi sarà ricordo presso quelli che verranno piú tardi” – non scaturisce di necessità da un’esperienza specificamente religiosa; ma è certamente inevitabile ovunque e ogni volta che sia cessata la fiducia nel mondo come luogo adatto alla presenza umana, all’azione e al discorso. Senza l’azione di inserire nel gioco del mondo il nuovo inizio di cui ogni uomo è capace per virtú d’esser nato, “non c’è nulla di nuovo sotto il sole”; senza il discorso volto a materializzare e tramandare, o a tentare di farlo, le “cose nuove” che appaiono e risplendono, “non c’è memoria”; senza le persistente durata di un mondo artificiale umano, non può esserci nessun ricordo “delle cose che sono per accadere presso quelli che verranno piú tardi”. E senza potere, lo spazio della presenza prodotto dall’azione e dal discorso in pubblico svanirà rapidamente come il gesto e la parola viventi.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. IV, pagg. 698-699