Aristotele, gli schiavi, fenomeno naturale e legale (politica)

Nell’Etica nicomachea Aristotele aveva affermato che lo schiavo e il figlio sono come una parte di noi, “e nessuno sceglie deliberatamente di danneggiare se stesso” (1134b 10-13). Nella Politica egli riprende il concetto di proprietà come appartenenza, e lo schiavo è definito come colui che “non appartiene a se stesso, ma ad un altro”. Inoltre Aristotele ammette una diversità naturale fra gli uomini e fra l’uomo e la donna, cosa che permette di giustificare la schiavitú e la discriminazione fra i sessi. C’è poi una schiavitú come fenomeno legale: si tratta della schiavitú costituita dai prigionieri di guerra. Secondo la tradizione dei popoli antichi, il vincitore aveva il diritto di rendere schiavo lo sconfitto.

Aristotele conclude l’argomento con alcuni dubbi e perplessità, che però non mettono in crisi la sua convinzione di fondo.

 

Politica, 1254a 8-1255a 2; 1255a 5-12; 1255b 5-15

 

1      [1254a] [...] Il termine “oggetto di proprietà” si usa allo stesso modo che il termine “parte”: la parte non è solo parte d’un’altra cosa, ma appartiene interamente a un’altra cosa: cosí pure l’oggetto di proprietà. Per ciò, mentre il padrone è solo padrone dello schiavo e non appartiene allo schiavo, lo schiavo non è solo schiavo del padrone, ma appartiene interamente a lui.

2      Dunque, quale sia la natura dello schiavo e quali le sue capacità, è chiaro da queste considerazioni: un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all’azione e separato.

         [...]

3      Se esista per natura un essere siffatto o no, e se sia meglio e giusto per qualcuno essere schiavo o no, e se anzi ogni schiavitú sia contro natura è quel che appresso si deve esaminare. Non è difficile farsene un’idea con il ragionamento e capirlo da quel che accade. Comandare ed essere comandato non solo sono tra le cose necessarie, ma anzi tra le giovevoli e certi esseri, subito dalla nascita, sono distinti, parte a essere comandati, parte a comandare. E ci sono molte specie sia di chi comanda, sia di chi è comandato (e il comando migliore è sempre quello che si esercita sui migliori comandati, per esempio su un uomo anziché su un animale selvaggio, perché l’opera realizzata dai migliori è migliore e dove c’è da una parte chi comanda, dall’altra chi è comandato, allora si ha davvero un’opera di costoro). In realtà in tutte le cose che risultano di una pluralità di parti e formano un’unica entità comune, siano tali parti continue o separate, si vede comandante e comandato: questo viene nelle creature animate dalla natura nella sua totalità e, in effetti, anche negli esseri che non partecipano di vita, c’è un principio dominatore, ad esempio nel modo musicale. Ma ciò probabilmente appartiene a una ricerca che esula dal nostro intento: il vivente, comunque, in primo luogo, è composto di anima e di corpo, e di questi la prima per natura comanda, l’altro è comandato. Bisogna esaminare quel che è naturale di preferenza negli esseri che stanno in condizione naturale e non nei degenerati, sicché, anche qui, si deve considerare l’uomo che sta nelle migliori condizioni e di corpo e d’anima, e in lui il principio fissato apparirà chiaro, [1254b] mentre negli esseri viziati e che stanno in una condizione viziata si potrebbe vedere che spesso il corpo comanda sull’anima, proprio per tale condizione abietta e contro natura.

4      Dunque, nell’essere vivente, in primo luogo, è possibile cogliere, come diciamo, l’autorità del padrone e dell’uomo di stato perché l’anima domina il corpo con l’autorità del padrone, l’intelligenza domina l’appetito con l’autorità dell’uomo di stato o del re, ed è chiaro in questi casi che è naturale e giovevole per il corpo essere soggetto all’anima, per la parte affettiva all’intelligenza e alla parte fornita di ragione, mentre una condizione di parità o inversa è nociva a tutti. Ora gli stessi rapporti esistono tra gli uomini e gli altri animali: gli animali domestici sono per natura migliori dei selvatici e a questi tutti è giovevole essere soggetti all’uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza. Cosí pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata – ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio in questo modo. Quindi quelli che differiscono tra loro quanto l’anima dal corpo o l’uomo dalla bestia (e si trovano in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle forze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre), costoro sono per natura schiavi, e il meglio per essi è star soggetti a questa forma di autorità, proprio come nei casi citati. In effetti è schiavo per natura chi può appartenere a un altro (per cui è di un altro) e chi in tanto partecipa di ragione in quanto può apprenderla, ma non averla: gli altri animali non sono soggetti alla ragione, ma alle impressioni. Quanto all’utilità, la differenza è minima: entrambi prestano aiuto con le forze fisiche per la necessità della vita, sia gli schiavi, sia gli animali domestici. Perciò la natura vuol segnare una differenza nel corpo dei liberi e degli schiavi: gli uni l’hanno robusto per i servizi necessari, gli altri eretto e inutile a siffatte attività, ma adatto alla vita politica (e questa si trova distinta tra le occupazioni di guerra e di pace): spesso però accade anche il contrario, taluni, cioè, hanno il corpo di liberi, altri l’anima, ché certo, se i liberi avessero un fisico tanto diverso quanto le statue degli dèi, tutti, è evidente, ammetterebbero che gli altri meritano di essere loro schiavi: e se questo è vero nei riguardi del corpo, tanto piú giusto sarebbe porlo nei riguardi dell’anima: invece non è ugualmente facile vedere la bellezza dell’anima e quella del corpo. [1255a] Dunque, è evidente che taluni sono per natura liberi, altri schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi.

         [...]

5      [1255a] [...] Tuttavia non è difficile vedere che quanti ammettono il contrario in qualche modo dicono bene. “Schiavitú” e “schiavo” sono presi in due sensi: c’è in realtà uno schiavo e una schiavitú anche secondo la legge e questa legge è un accordo per cui ciò che si è vinto in guerra dicono appartenere al vincitore. Ora questo diritto molti giuristi accusano d’illegalità come si accusa un oratore: essi trovano strano che, se uno è in grado di esercitare violenza ed è superiore in forza, l’altro, la vittima, sia schiavo e soggetto. E anche tra i dotti c’è chi la pensa in questo modo, chi in quello.

         [...]

6      [1255b] [...] È chiaro dunque che la discussione ha un certo motivo e non <sempre> ci sono da una parte gli schiavi per natura, dall’altra i liberi e che in certi casi la distinzione esiste e che allora agli uni giova l’essere schiavi, agli altri l’essere padroni e gli uni devono obbedire, gli altri esercitare quella forma di autorità a cui da natura sono stati disposti e quindi essere effettivamente padroni: al contrario esercitare male l’autorità comporta un danno per tutt’e due (la parte e il tutto, come il corpo e l’anima, hanno gli stessi interessi e lo schiavo è una parte del padrone, è come se fosse una parte del corpo viva ma separata: per ciò esiste un interesse, un’amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel caso che hanno meritato di essere tali da natura: quando invece tali rapporti sono determinati non in questo modo, ma solo in forza della legge e della violenza, è tutto il contrario).

 

(Aristotele, Opere, Laterza, Bari, 1973, vol. IX, pagg. 9-12; pag. 14)