Bergson, Sui limiti della conoscenza

Secondo Bergson, mentre l’intelligenza umana si dimostra particolarmente efficace nella conoscenza di oggetti solidi e inerti, mostra tutti i suoi limiti quando vuole comprendere “il profondo significato del movimento evolutivo”, la natura della vita.

 

H. Bergson, L’évolution créatrice, Alcan, Paris, 1907; trad. it. L’evoluzione creatrice, cura di A. Vedaldi, Sansoni, Firenze, 1986, pagg. 65-71 ( pagg. 393-394)

 

La storia dell’evoluzione della vita, per quanto tuttora incompiuta, ci lascia scorgere come l’intelligenza si sia venuta a mano a mano formando, mediante un progresso ininterrotto, lungo una linea che sale sino all’uomo, attraverso la serie dei Vertebrati. Ci mostra nell’intelligenza un annesso della facoltà di agire, un adeguamento via via piú preciso, piú complesso e duttile della coscienza degli esseri viventi alle condizioni di vita che vengono loro imposte. Da ciò si dovrebbe logicamente dedurre che la nostra intelligenza – nel senso stretto del termine – è destinata ad assicurare la precisa inserzione del nostro corpo nell’ambiente che gli è proprio, a rappresentarsi i reciproci rapporti delle cose esterne, infine a pensare la materia. Sarà questa, infatti, una delle conclusioni cui arriveremo nel presente saggio. Vedremo che l’intelligenza umana si sente a proprio agio soltanto fra oggetti inerti, e specialmente fra solidi; in questi, la nostra azione trova il proprio punto d’appoggio e la nostra industria i propri strumenti di lavoro. Vedremo che i nostri concetti sono stati foggiati a immagine dei solidi; che la nostra logica è principalmente logica di solidi e che, proprio per questo motivo, la nostra intelligenza trionfa nella geometria – una scienza in cui, piú che in ogni altra, si rivela la stretta parentela fra pensiero logico e materia inerte, in cui l’intelligenza non ha altro da fare che seguire il proprio andamento naturale, dopo un fugacissimo contatto con l’esperienza, per procedere da una scoperta all’altra con la certezza d’essere costantemente seguita dall’esperienza, che le darà sempre ragione.

Ma da ciò dovrebbe risultare ancora che il nostro pensiero, nella sua forma puramente logica, è incapace di cogliere la natura genuina della vita, il profondo significato del movimento evolutivo. Difatti, come potrebbe l’intelligenza, creata dalla vita in determinate circostanze, per operare su determinate cose, abbracciare la vita tutt’intera, se non ne è che un’espressione o un aspetto? Depositata, per cosí dire, lungo la strada dal processo evolutivo, come potrebbe investire il processo stesso? Noi sentiamo infatti distintamente che nessuna categoria del pensiero – unità, molteplicità, causalità meccanica, finalità intelligente ecc. – può esattamente applicarsi alle cose della vita. Invano si tenta di comprimere la vita entro questo o quest’altro schema intellettuale. Tutti gli schemi si spezzano. Sono troppo stretti; soprattutto, sono troppo rigidi per accogliere ciò che vorremmo inserire. Il nostro ragionamento, cosí sicuro di sé quando opera fra cose inerti, si sente invece a malagio su questo terreno.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. I, pagg. 790-791