Bloom, Il Mastery learning

Benjamin Samuel Bloom, nato negli Stati Uniti nel 1913, in queste pagine chiarisce i presupposti della strategia del Mastery learning (“apprendimento per la padronanza”): essa si richiama all’idea che la maggior parte degli studenti possa raggiungere un elevato livello di apprendimento se vengono create le condizioni favorevoli, adeguate alle caratteristiche e ai bisogni individuali. Le differenze nell’apprendimento sono considerate un fenomeno che è possibile prevedere, spiegare e modificare, se ricondotto alle condizioni “ambientali”, cioè al sistema di istruzione scolastica e alle sue variabili.

 

B. S. Bloom, Caratteristiche umane e apprendimento scolastico

 

L’idea di fondo della teoria presentata, per la quale si postula che la maggior parte degli studenti sia in grado di apprendere ciò che la scuola deve insegnare quando si affronti il problema con sensibilità e sistematicità, è piuttosto antica. È stata centrale per svariati millenni nell’insegnamento tutoriale ed è stata ben compresa (in epoche storiche diverse) da quei genitori che hanno trovato il modo di aiutare i loro figli in difficoltà con particolari aspetti del lavoro scolastico. Questa stessa idea fu messa in evidenza, sia pure in forme diverse, dalle scuole dei Gesuiti prima del XVII secolo, epoca in cui fu espressa da Comenio, poi da Pestalozzi nel XVIII e da Herbart nel XIX secolo. Si potrebbero comunque citare molti altri suoi sostenitori: nel XX secolo, Washburne (1922) nel suo Piano di Winnetka a Morrison (1926) nella Scuola-laboratorio annessa all’Università di Chicago organizzarono situazioni educative in cui il motivo centrale era costituito, piú che dal tempo impiegato per imparare, dalla padronanza di particolari compiti di apprendimento.

L’approccio piú recente al concetto in esame è stato sviluppato sotto la denominazione di “mastery learning”. Attualmente esistono molte versioni di questa strategia, ma tutte muovono dall’idea che la maggior parte degli studenti può raggiungere un alto livello di capacità di apprendere a patto che: si affronti l’insegnamento con sensibilità e sistematicità, si aiutino gli allievi quando e dove presentano difficoltà di apprendimento, si dia loro il tempo sufficiente per conseguire la padronanza, e si stabilisca un criterio chiaro per definire che cosa sia da considerare, appunto, “padronanza”.

Il mio pensiero in proposito è stato molto influenzato dal Model of School Learning di John Carroll (1963). Questo modello, come io l’ho interpretato, indica che se gli studenti sono normalmente distribuiti rispetto all’attitudine per qualche disciplina e si dà loro esattamente la stessa istruzione (la stessa in termini di quantità, qualità e tempo concesso per apprendere), anche il profitto, misurato al termine dell’apprendimento di tale disciplina, risulterà distribuito normalmente. In condizioni del genere, la correlazione tra l’attitudine misurata all’inizio dell’istruzione e il profitto misurato alla fine sarà piuttosto alta (r = + 70 circa). Viceversa, se gli studenti sono distribuiti normalmente rispetto all’attitudine, ma il tipo e la qualità dell’istruzione, nonché il tempo di apprendimento concesso, vengono adeguati alle caratteristiche e ai bisogni di ciascun soggetto che apprende, la maggioranza degli studenti conseguirà la padronanza della materia. La correlazione tra l’attitudine iniziale e il profitto finale, allora, dovrebbe avvicinarsi allo zero.

Con la collaborazione dei miei studenti, io ho elaborato varie procedure e strategie per il conseguimento della padronanza in determinate materie da noi prescelte. In questo lavoro era essenziale definire che cosa si intendeva per “padronanza” in un test di profitto. Abbiamo risolto il problema impiegando test di profitto identici o paralleli, sia in classi che adottavano il mastery learning, sia in classi “non-mastery”, cioè con insegnamento tradizionale, e stabilendo come definizione di padronanza per le prime il livello di prestazione che normalmente si richiede per una classificazione di tipo “A”. Altrettanto importante è stato il presupposto che all’inizio le classi avessero pressappoco la stessa istruzione e talvolta anche uno stesso insegnante che usasse lo stesso metodo di insegnamento. Questo modo di considerare l’istruzione iniziale ci ha permesso di isolare gli effetti del mastery learning dalle caratteristiche particolari dell’insegnante e dei contenuti. La ricerca è stata quindi centrata sugli effetti di particolari strategie d’insegnamento-apprendimento, piú che sulle caratteristiche dell’insegnante o degli allievi.

Per le strategie di mastery learning è stata fondamentale l’elaborazione di procedure di feed-back e correttive per le diverse fasi del processo di apprendimento. Le possibilità di realizzare il feedback erano diverse: quaderni di lavoro, serie di quesiti, compiti a casa, ecc. Abbiamo però scoperto che era molto piú utile apprestare brevi test progressivi a scopo diagnostico, destinati ad individuare che cosa ogni studente avesse appreso di una particolare unità, di un capitolo o di una parte del corso e che cosa avesse ancora bisogno di imparare. Tuttavia la chiave del successo delle strategie di mastery learning risiede in gran parte nella possibilità di motivare gli studenti e di aiutarli a superare le difficoltà di apprendimento al momento giusto. Molti insegnanti si sono dimostrati altamente creativi, proprio nel motivare gli studenti a fare il lavoro supplementare necessario e nel trovare correttivi efficaci. Valutando complessivamente il lavoro fatto fin qui, devo dire che l’aver dato agli allievi l’opportunità di aiutarsi vicendevolmente in piccoli gruppi si è rivelato un metodo valido per stimolarli ad usare i correttivi e per offrir loro il tempo e l’aiuto supplementare di cui avevano bisogno. Anche l’assistenza dell’insegnante, l’istruzione programmata, i nastri e le cassette audio, ed altro materiale didattico sembrano funzionali in particolari situazioni. L’insegnante ha dovuto fornire insegnamento o aiuto supplementare soltanto in pochi casi: per lo piú, il lavoro correttivo conseguente alla somministrazione dei test per il feed-back diagnostico e di progresso, è stato effettuato al di fuori del regolare tempo scolastico.

Nei molti studi riportati da Block (1971, 1974) e da Peterson (1972), vi sono prove considerevoli che le procedure di mastery learning riescono a portare circa i quattro quinti degli studenti al livello di profitto che, in condizioni di insegnamento usuale, viene raggiunto da meno di un quarto degli allievi. Per arrivare a tanto, è necessario un impiego di tempo che supera quello previsto dall’orario scolastico di un 10-20%. L’efficacia dei correttivi e il tempo supplementare necessario risultano essere funzioni dirette della qualità degli strumenti di feed-back progressivo-diagnostici, cioè dei test “formativi”.

Le strategie di mastery learning si sono rivelate senza dubbio efficienti in molte situazioni di classe, a tutti i livelli di apprendimento, dalla scuola elementare alla scuola professionale e superiore. Però è chiaro che vi sono situazioni in cui esse non hanno buon esito: abbiamo cercato di capire qualcosa circa questa diversità di risultati. Questo libro, per larga parte, considera il mastery learning un caso particolare di una piú generale teoria dell’apprendimento scolastico. Teoria che, appropriatamente applicata, dovrebbe risultare utile nel predire quali situazioni di apprendimento e caratteristiche degli studenti siano necessarie perché venga conseguita la padronanza e in quali condizioni il mastery learning possa produrre piú o meno gli stessi livelli di apprendimento delle situazioni di insegnamento tradizionale.

Piú importante ai fini del presente lavoro, però, è stato il nostro tentativo di fare ricerche utilizzando le strategie di mastery learning come strumenti per determinare in quali condizioni la maggioranza degli studenti riesce ad apprendere bene o meno bene. Dalla ricerca e dall’esame della letteratura esistente in materia, sono nati seri interrogativi circa la nostra attuale concezione delle differenze individuali nell’apprendimento scolastico. Dopo quasi dieci anni di lavoro sul mastery learning e di ricerche su alcune delle variabili in esso implicate, siamo giunti a concludere che tali differenze in condizioni altamente favorevoli si accosteranno allo zero assoluto, mentre risulteranno ampiamente accentuate in condizioni meno favorevoli. Dobbiamo ricordare al lettore che noi ci interessiamo essenzialmente dell’educazione, e non tanto delle differenze individuali. Infatti ci occupiamo delle condizioni in cui l’insegnamento e la scuola risultano piú efficaci: le differenze individuali nell’apprendimento e il livello di profitto raggiunto sono due sintomi dell’efficienza dei metodi educativi usati nella scuola.

La ricerca effettuata usando il mastery learning come strumento e le pubblicazioni di altre ricerche attinenti al problema, ci hanno anche fornito le basi per formulare una serie di generalizzazioni sull’istruzione scolastica, sull’apprendimento e sulle caratteristiche umane, quelle stesse che abbiamo tentato di compendiare in una teoria dell’apprendimento scolastico. Questa teoria cerca di spiegare l’apprendimento scolastico nei termini di un limitato numero di variabili. Essa si presenta pressoché senza assunzioni nei confronti delle capacità umane, ma tenta di stabilire, sulle basi dell’evidenza empirica, in che misura si debbano mettere in discussione sia i giudizi del senso comune, sia le abituali osservazioni compiute sugli studenti e sull’apprendimento.

La teoria deve senz’altro molto al Model of School Learning di Carroll (1963) e alle idee che sono a fondamento del mastery learning, cosí come è stato applicato nelle scuole e nei colleges; però tenta di andare oltre. Forse il lettore, a questo punto, dovrebbe essere informato sulla conclusione ultima del nostro lavoro. Sostanzialmente è questa: ciò che qualunque essere umano è in grado di apprendere, può essere acquisito da quasi tutti gli individui, se dispongono di condizioni di apprendimento adeguate, sia antecedenti che attuali. Vi sono senz’altro eccezioni a tutto questo, però la teoria offre un quadro ottimistico di quanto l’educazione possa fare per gli esseri umani. Essa infatti prospetta l’eventualità che si possano apprestare condizioni di apprendimento scolastico tali da consentire a quasi tutti gli esseri umani di arrivare al meglio finora raggiunto soltanto da alcuni. Ciò che si definisce come “il meglio” varia, naturalmente, secondo il tempo, il luogo, la cultura ed anche secondo gli individui. La teoria comunque assicura che, in qualunque tempo ed in qualunque luogo, le scuole potranno offrire il meglio dell’educazione praticamente a tutti i loro studenti, se decideranno di farlo.

 

Il processo di istruzione scolastica

L’educazione può essere impartita da molte istituzioni (es., famiglia, scuola, mass media) e da svariate esperienze di vita all’interno di una società; l’istruzione sistematica, però, è piú frequentemente fornita da scuole e università. Gran parte della teoria presentata in questo libro è direttamente applicabile al processo di istruzione scolastica e alla scuola, anche se si spera che nei suoi diversi aspetti possa essere considerata pertinente a qualsiasi altra forma di istruzione sistematica, che sia attuata in una società, nelle scuole o altrove.

In tutto il mondo le scuole sono state create per provvedere alla parte piú importante dell’educazione dei piccoli. Anche se gli scopi e i contenuti di questa educazione variano ampiamente da paese a paese e all’interno di ogni nazione, il processo di istruzione scolastica è pressappoco lo stesso ovunque. Si organizzano scuole, in cui insegnanti e materiali didattici offrono istruzione a gruppi di studenti (generalmente formati da un numero di allievi da venti a settanta). Gran parte dell’istruzione si progetta in modo sistematico, nel senso che l’apprendimento conseguito in un trimestre, o in un anno, è considerato base o prerequisito dell’apprendimento da realizzarsi nel successivo.

In questo processo di istruzione scolastica, si tende a classificare gli studenti secondo livelli di età e di classe, presumendo che si adattino a tali livelli sia i contenuti da apprendere sia i modi in cui questi si apprendono. Si assume anche che gli insegnanti siano sensibili alle particolari caratteristiche degli studenti, nonché al contenuto e agli obiettivi dei materiali didattici e dei processi da apprendere, tipici del livello scolastico in cui operano.

Ad ogni grado di scuola si usano misure di acquisizione che definiscono la situazione dello studente e forniscono informazioni sulla base delle quali si decide in merito alle opportunità di apprendimento cui provvedere nei successivi gradi. Ad ogni livello, normalmente, le misure del profitto denunciano differenze individuali nell’apprendimento conseguito, che risultano maggiori di quelle dello stadio precedente. Tutti gli studenti sono oggetto di tali decisioni: quelli a cui si offrono occasioni supplementari di apprendere, quelli a cui le stesse occasioni vengono negate ed anche quelli dai quali ci si aspetta la ripetizione di determinate esperienze di apprendimento. Ci si appella alle differenze individuali nei soggetti che apprendono sia per spiegare e render conto delle differenze nel profitto, sia come razionalizzazione che giustifichi la differenziazione operata dalla scuola, e dalla collettività che la sostiene, nell’offrire ulteriori opportunità di apprendimento.

Tesi principale di questo libro è che le differenze individuali nell’apprendimento costituiscono un fenomeno che può essere previsto, spiegato e modificato in vari modi. Le differenze individuali nei soggetti che apprendono rappresentano invece un concetto esoterico, che spesso offusca i nostri sforzi di occuparci direttamente di problemi educativi, in quanto cerca spiegazioni nella persona dell’allievo e non nell’interazione tra gli individui e l’ambiente educativo e sociale in cui essi si collocano.

I genitori, gli insegnanti e quasi tutte le ricerche pubblicate sulla misurazione dei risultati dell’apprendimento, fin dagli inizi di questo secolo, attestano chiaramente l’esistenza di ampie differenze individuali. Il fatto che esse possano essere rilevate con facilità non solo da osservatori qualificati, ma anche da persone non addestrate, ne fa un fenomeno verificabile a livello di senso comune. Senso comune che, peraltro, trova riscontro nell’elaborato sistema di test di profitto creato e impiegato negli Stati Uniti (e in altri paesi), con il quale si possono individuare le differenze minuziosamente e con considerevole fedeltà e oggettività.

Anche da indagini sul rendimento scolastico, realizzate su larga scala per l’intero territorio di diversi paesi (Coleman, 1966; Plowden, 1967; Comber & Keeves, 1973; Husén, 1967; Purves, 1973; Thorndike, 1973) risultano ampie differenze nelle misure di profitto individuali, di gruppo e nazionali.

Vi sono dunque abbondanti prove che le differenze nell’apprendimento scolastico “esistono”. In effetti l’esistenza del fenomeno è indiscussa. È anche ampiamente provato che se esse compaiono relativamente presto (in terza classe elementare), tendono a perdurare e perfino ad aumentare nel corso degli anni di permanenza a scuola. Studi che hanno impiegato metodi di ricerca longitudinali mettono in luce che le differenze riscontrate tra gli studenti nel profitto misurato in una determinata classe, non scompaiono a livello della successiva (Bloom, 1964). Questi studi mostrano che vi è una relazione sostanziale tra le differenze di profitto fra gli studenti di un certo gruppo in un determinato momento e quelle rilevate molti anni dopo (Bracht & Hopkins, 1972; Payne, 1963).

Nonostante tutte le prove sull’esistenza e la stabilità delle differenze nell’apprendimento scolastico, chi scrive resta convinto che la variazione sia in gran parte da attribuire alle condizioni ambientali, in famiglia e a scuola. Cioè, molte delle differenze devono essere considerate accidentali e prodotte dall’uomo, non fissate nell’individuo al momento del suo concepimento.

Parte delle differenze è prodotta dalla famiglia e dalla scuola, attraverso le particolari pratiche in uso nelle due istituzioni. Gli sforzi fatti per insegnare ad un bambino possono avere un buon esito o risultare inutili: in entrambi i casi si dà un giudizio sul soggetto e soltanto raramente sulla sua preparazione precedente o sull’insegnamento. Questi giudizi dati dai genitori, dagli insegnanti e dalla scuola fanno sí che il soggetto che apprende si convinca di essere diverso dagli altri allievi e di poter imparare meglio o peggio rispetto a certi coetanei o compagni di scuola. Essendosi cosí convinti di questo, sia lo studente che gli adulti importanti della sua vita agiscono di conseguenza. Studenti, genitori e insegnanti si aspettano delle differenze, per cui predispongono procedure in cui si impegnano, ma che finiscono per accrescere e ampliare tali differenze. A loro volta, gli studiosi di problemi educativi e gli esaminatori scovano importanti giustificazioni teoriche, sperimentali e pratiche per l’intero processo.

Uno degli elementi importanti, di cui si deve tener conto nello spiegare le differenze nell’apprendimento scolastico, è la centralità accordata all’istruzione collettiva. L’insegnamento dato ad un gruppo scolastico che include dai venti ai settanta allievi può risultare molto efficace per alcuni, ma poco per altri. Questo aspetto del processo di istruzione scolastica è probabilmente pieno di errori che si sono combinati insieme nel tempo e, a meno che non si trovi il modo di individuare e correggere le pecche dell’insegnamento e dell’apprendimento, un sistema del genere può verosimilmente produrre differenze individuali nell’apprendere, che permangono e si ampliano col passare degli anni.

In completa opposizione a questo sistema “pieno di errori” (“error-full ”), si può concepire un sistema di insegnamento-apprendimento “libero da errori” (“error-free ”), quale si può trovare nell’interazione tra un tutor sensibile ed un unico allievo. Se i processi di comunicazione tra docente e discente sono eccellenti, può darsi che la possibilità di errore nell’insegnamento e nell’apprendimento si riduca al minimo. Ad ogni modo, sia che l’insegnamento e l’apprendimento collettivi riescano ad approssimarsi alla riduzione di errori caratteristica di un ideale rapporto tutor-allievo, sia che non vi riescano, un modo per accedere ad un “sistema ad errore minimo ” (“minimal-error system ”) può forse essere costituito dalla sistematica individuazione e correzione degli errori nell’insegnamento collettivo e nell’apprendimento individuale.

Questa teoria tenta di identificare le variabili che spiegano gran parte dell’“errore” presente nel processo di insegnamento scolastico e al tempo stesso offre delle prove per determinare la quantità di errore causato da ciascuna variabile e l’effetto risultante dal controllo o dalla modificazione di essa. È improbabile che il processo di insegnamento possa diventare un sistema completamente esente da errore, però si può riuscire ad ottenere una riduzione di quello che teoricamente e praticamente potrebbe essere commesso nella scuola (o si può determinare una riduzione nelle differenze individuali di apprendimento).

 

R. Fornaca, Didattica e tecnologie educative. Storia e testi, Principato, Milano, 1985, pagg. 453-459