BOBBIO, LA TEORIA DELLA GUERRA GIUSTA

 

La teoria della guerra giusta, in quanto teoria intermedia tra le teorie bellicistiche e quelle pacifistiche, ha assolto nella storia due funzioni diverse: ora è stata accolta per negare la validità delle prime, ora è stata accolta per negare la validità delle seconde. Nella teologia cattolica, a cominciare da S. Agostino, ha assolto la prima funzione: si trattava allora di confutare la tesi, attribuita ai primi padri della chiesa, che da alcuni passi e dallo spirito del Vangelo si dovesse trarre il principio della condanna assoluta della guerra e che quindi ogni guerra fosse sempre illecita. Nella rinascita del giusnaturalismo dopo la prima guerra mondiale, la teoria della guerra giusta, da tempo abbandonata, è stata resuscitata per assolvere la funzione contraria: si trattava, questa volta, di confutare le teorie realistiche della storia e della politica che avevano in vario modo esaltato la guerra ed erano giunte alla conclusione che tutte le guerre sono lecite.

 

Le difficoltà cui il tentativo di distinguere guerre giuste e guerre ingiuste è andato sempre incontro, sono note. Lasciando da parte per ora le guerre di difesa, il denominatore comune di tutte le teorie è sempre stato il riconoscimento della iusta causa a quelle guerre di offesa, il cui scopo è la riparazione di un torto subito o la punizione di un colpevole. In questo modo la guerra è stata assimilata ad una procedura giudiziaria, cioè a un espediente per risolvere una contesa sorta tra soggetti che non ubbidiscono ad una legge comune. Ma proprio questa assimilazione ha finito per mettere in evidenza la debolezza della teoria.

 

In ogni procedura giudiziaria si distinguono il processo di cognizione e il processo di esecuzione. A prima vista può sembrare che la guerra si presti a giustificare il confronto con la procedura giudiziaria per quel che riguarda almeno il processo di esecuzione: la guerra come esecuzione forzata o come pena, in una parola la guerra come sanzione, cioè la forza al servizio del diritto. Ma per quel che riguarda il processo di cognizione? Sotto questo aspetto la teoria mostra una grave debolezza, almeno per due ragioni: un processo di cognizione è tanto più in grado di assicurare la discriminazione del giusto e dell'ingiusto, e quindi di stabilire una linea di confine tra la ragione e il torto, quanto più si ispira ai due princìpi fondamentali della certezza dei criteri di giudizio e della imparzialità di chi deve giudicare. Nella dichiarazione e nell'attuazione di una guerra, né l'uno né l'altro principio vengono rispettati: non il primo, perché la lunga tradizione di teorie sulla guerra giusta è fallita proprio nel tentativo di stabilire un insieme di criteri comunemente accettati (onde non c'era guerra che non trovasse in questa o quella dottrina il proprio criterio di giustificazione); non il secondo, perché chi decide della giustizia o ingiustizia della guerra è la stessa parte in causa, non un giudice al di sopra delle parti. Da questi due caratteri che contraddistinguono la dichiarazione e l'attuazione di una guerra rispetto al processo di cognizione nasceva l'inconveniente già più volte lamentato dagli stessi sostenitori della teoria, cioè che una guerra poteva essere giusta da entrambe le parti. P, chiaro che per una procedura il cui scopo è di stabilire chi ha ragione e chi ha torto non c'è maggior prova del suo insuccesso che il dover prender atto alla fine che tutti e due i contendenti hanno ragione. Il riconoscimento che la maggior parte delle guerre erano giuste da entrambe le parti fu una delle ragioni che, sollevando forti dubbi nella mente dei suoi stessi sostenitori, finì per aprire il varco alle critiche e segnò l'inizio della decadenza della teoria della guerra giusta.

 

A guardar bene, anche rispetto al processo di esecuzione, il confronto tra guerra e procedura giudiziaria è fallace. Per "sanzione" si intende un qualche male inflitto a colui che ha violato una regola giuridica. La sconfitta è certamente un male: ma quale garanzia offre un conflitto armato che il male o per lo meno il maggior male sia inflitto a chi ha torto? La guerra è una procedura giudiziaria in cui il maggior male è inflitto non a chi ha più diritto ma a chi ha più forza, onde si verifica la situazione in cui non già la forza è al servizio del diritto ma il diritto finisce per essere al servizio della forza.

 

In sintesi: una qualsiasi procedura giudiziaria è istituita allo scopo di far vincere chi ha ragione. Ma il risultato della guerra è proprio l'opposto: è quello di dar ragione a chi vince. Rispetto all'analogia tra guerra e sanzione, la guerra non è una procedura giudiziaria, ma un giudizio di Dio.

 

Un'ultima osservazione globale: lo scopo principale di una procedura giudiziaria all'interno di un ordinamento è la restaurazione dell'ordine costituito. Si presume che l'ordine costituito sia giusto e che ogni attentato a quest'ordine sia ingiusto. Il processo è il mezzo con il quale l'ordine costituito (giusto) viene ristabilito contro ogni tentativo di rovesciarlo. La sua funzione è eminentemente conservatrice. Ma la guerra non ha sempre una funzione restauratrice: molto spesso, anzi, le guerre che appaiono giuste all'opinione pubblica più avanzata non hanno affatto lo scopo di conservare lo status quo, ma di sovvertirlo. Si pensi alle guerre d'indipendenza europee del secolo scorso e alle guerre di liberazione nazionale dei paesi extracoloniali. A questo proposito, se si vuole trovare un'analogia tra la guerra e un'istituzione giuridica, il termine di raffronto non è la procedura giudiziaria, ma la rivoluzione, cioè quell'insieme di atti che sono rivolti all'abbattimento di un ordinamento vecchio e all'instaurazione di un ordinamento nuovo. Di fronte a una guerra concepita come rivoluzione la distinzione tra guerre giuste e guerre ingiuste non ha più alcuna ragione d'essere: rispetto all'ordinamento contro cui muove, la rivoluzione è sempre, per definizione, ingiusta. La giustificazione della rivoluzione viene dopo, a cose fatte, quando l'ordinamento nuovo è costituito: ed è in questo ordinamento, non nel vecchio, che la rivoluzione trova i titoli della propria legittimità. È significativo il fatto che Grozio poneva tra le cause che escludono la giustizia di una guerra, accanto ad una causa che oggi considereremmo futile come "il rifiuto di un matrimonio", anche la causa principale di una guerra rivoluzionaria, cioè "il desiderio di riacquistare la libertà perduta". (De iure belli ac pacis, 11, 22, 11). Ma appunto la teoria della guerra giusta considerava la guerra come una procedura atta a ricostituire l'ordine, non a sovvertirlo.

 

Rimane il problema della guerra di difesa, che viene giustificata in base ad un principio valido in ogni ordinamento giuridico e accettato da ogni dottrina morale (tranne dalle dottrine della non violenza): vim vi repellere licet. Ma la strategia della guerra atomica permette ancora di mantenere la distinzione tra guerra di offesa e guerra di difesa? Vi sono due modi tradizionali di intendere la guerra di difesa: in senso stretto, come risposta violenta ad una violenza in atto; in senso largo come risposta violenta ad una violenza soltanto temuta o minacciata, cioè come guerra preventiva.

 

Nella strategia atomica la guerra di difesa in senso stretto ha perduto ogni ragion d'essere: essa è possibile solo in base al principio dell'eguaglianza fra delitto e castigo, cioè qualora vi sia una ragionevole probabilità per l'aggredito che il danno che esso può infliggere sia eguale al danno subìto. La strategia atomica smentisce questo principio: per quanto le potenze atomiche siano solite dichiarare che i mezzi atomici hanno soltanto scopi difensivi e verranno usati non per l'attacco ma solo per la difesa, 0i esperti hanno formulato a più riprese la dottrina secondo la quale ciò che conta in una guerra combattuta con armi termonucleari è il primo colpo. Pertanto, chi attacca per primo si trova nella condizione favorevole per rendere inattuabile il principio dell'eguaglianza tra delitto e castigo, e quindi la guerra di difesa nel senso tradizionale della parola. In una guerra termonucleare l'attuazione rigorosa del principio dell'eguaglianza tra delitto e castigo condurrebbe al limite al suicidio universale.

 

Per quel che riguarda la guerra di difesa preventiva, combattuta con armi atomiche, essa è giustificata, in base al principio che la difesa deve essere proporzionata all'offesa reale o temuta, solo in un sistema bipolare o pluripolare di potenze atomiche: ma in tale sistema essa raggiunge il proprio scopo soltanto se riesce al primo colpo ad annientare l'apparato termonucleare dell'avversario cioè a impedire il contraccolpo, dal momento che la rappresaglia atomica, qualora sia ancora possibile, rischia di superare la soglia di distruzione tollerabile dalla potenza attaccante. Anche in questo caso la guerra di difesa atomica appare più come un progetto che come un evento realizzabile. Il che ci porta a concludere che allo stato dei fatti l'apparato termonucleare è più un mezzo per scoraggiare la guerra altrui che un mezzo per mettere in atto la guerra propria. A meno che si concepisca una guerra di brutale aggressione che tenda a realizzare la situazione opposta a quella su cui si fonda la guerra di difesa, non la situazione dell'eguaglianza tra delitto e castigo, ma quella del delitto impunito. Ma è ovvio che in questo caso siamo ormai al di fuori della guerra di difesa e cade ogni possibilità di giustificazione.

 

(N. Bobbio, La guerra nella società contemporanea, a cura di L. Bonanate, Principato, Milano 1976, pag. 52)