BENTHAM, I principi che si oppongono al principio di utilità

 

§ 1. Se il principio di utilità è un principio giusto da cui farsi dirigere, e questo in tutti i casi, da quello che è stato appena osservato segue che qualsiasi principio differisca da esso in ogni caso debba necessariamente essere ingiusto. Quindi, per provare che ogni altro principio è ingiusto, non serve altro che dimostrarlo per quello che è, cioè un principio i cui dettami differiscono in un punto o nell’altro da quelli del principio di utilità: affermare questo basta per confutarlo. § 2.Un principio può differire da quello di utilità in due modi: (1) opponendosi ad esso costantemente; questo è il caso di un principio che può essere denominato principio dell’ascetismo (2) opponendosi ad esso a volte sì e a volte no, come capita; questo è il caso di un altro principio che può essere denominato principio della simpatia e antipatia. § 3. Per principio dell’ascetismo intendo quel principio che, come quello di utilità, approva o disapprova ciascuna azione a seconda della tendenza che essa sembra avere ad aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è in questione, ma in maniera inversa: approva le azioni nella misura in cui tendono a diminuire la felicità, le disapprova nella misura in cui tendono ad aumentarla. § 4. È evidente che chiunque biasimi anche la minima particella di piacere in quanto tale, qualunque ne sia l’origine, è pro tanto un seguace del principio dell’ascetismo. È solo in base ad esso, e non in base al principio di utilità, che il più abominevole piacere che il più spregevole dei malfattori abbia mai ottenuto dal crimine commesso andrebbe riprovato, se tale piacere si presentasse da solo. Ma sta di fatto che non è mai isolato, ma è necessariamente seguito da una tale quantità di dolore (o, che è la stessa cosa, da tali occasioni di dolore) che il piacere al confronto risulta nullo. E questa è la sola ed unica, ma del tutto sufficiente, ragione per fare di quel piacere un fondamento per la punizione. § 5. Ci sono due categorie di uomini dai caratteri molto diversi che sembrano aver abbracciato il principio dell’ascetismo: un primo gruppo di moralisti e un secondo di fanatici religiosi. Conformemente a ciò, diversi sono stati i motivi che sembrano aver raccomandato questo principio all’attenzione di questi due diversi partiti. La speranza, vale a dire la prospettiva del piacere, sembra aver animato i primi: la speranza, il nutrimento dell’orgoglio filosofico, la speranza di ricevere onore e fama da parte degli uomini. La paura, vale a dire la prospettiva del dolore, sembra aver animato i secondi: la paura, l’origine delle fantasie superstiziose, la paura di una punizione futura per mano di una divinità collerica e vendicativa. La paura, dico in questo caso: poiché davanti al futuro invisibile la paura è più potente della speranza. Queste diverse circostanze caratterizzano i due diversi partiti dei seguaci del principio dell’ascetismo: diversi i partiti e le loro motivazioni, uguale il principio. § 6. Tuttavia, il partito religioso sembra averlo spinto più avanti di quello filosofico: i religiosi hanno agito con maggiore coerenza e minore saggezza. Il partito filosofico non si è spinto quasi mai oltre una riprovazione del piacere; quello religioso si è spinto così avanti da rendere la ricerca del dolore un fatto meritevole e obbligatorio. Il partito filosofico si è raramente spinto oltre un atteggiamento indifferente nei confronti del dolore. Non è male, hanno affermato, ma non hanno mai affermato che sia bene. Non hanno mai respinto tutti i piaceri in blocco: hanno rifiutato solo quelli definiti grossolani, vale a dire quelli sensuali, o ad essi facilmente riconducibili, mentre hanno persino amato e esaltato i piaceri raffinati, anche se non sotto il nome di piaceri. Per ripulire il piacere dalla sordidezza della sua origine impura era necessario cambiargli nome: doveva esser chiamato onore, gloria, rispettabilità, convenienza, honestum, decorum; insomma: tutto tranne che piacere. § 7. Da queste due origini sono scaturite le dottrine da cui i sentimenti della massa hanno sempre ricevuto una sfumatura di questo principio; chi da quella filosofica, chi da quella religiosa, chi da entrambe. Gli uomini istruiti l’hanno ricevuta più frequentemente da quella filosofica, in quanto più adatta all’elevatezza dei loro sentimenti; il volgo più frequentemente da quella superstiziosa, in quanto più adatta alla limitatezza del suo intelletto, non allargato dalla conoscenza, e alla sua condizione abietta, esposta di continuo agli attacchi della paura. Tuttavia, le due sfumature, diverse all’origine, si mescolavano naturalmente, tanto che un uomo non sempre sapeva da quale delle due fosse maggiormente influenzato, e spesso si rafforzavano e ravvivavano l’una con l’altra. È stata questa uniformità a creare una specie di alleanza tra due partiti altrimenti tanto diversi, e a spingerli ad allearsi in varie occasioni contro il comune nemico, il seguace del principio di utilità, che erano d’accordo nell’etichettare con l’odioso appellativo di Epicureo. § 8. Il principio dell’ascetismo, tuttavia, per quanto caldamente abbracciato dai suoi seguaci come regola di condotta privata, sembra non sia stato sostenuto in misura considerevole quando è stato applicato alle questioni di governo. In alcuni casi è stato limitatamente sostenuto dal partito filosofico: ne è testimone il regime spartano, per quanto poi forse anche in questo caso si possa considerare come un provvedimento dettato dalla sicurezza, come un’applicazione, per quanto precipitosa e perversa, del principio di utilità. Raro invece il sostegno da parte del partito religioso: infatti i vari ordini monastici, e le società dei Quaccheri, dei Dumplers, dei Moravi e di altri fanatici religiosi sono state società libere, che non hanno costretto nessun uomo al loro regime senza il suo consenso. Anche se possono aver trovato un certo merito nel rendersi infelici, non sembra che sia mai venuto loro in mente che fosse un merito, e ancor meno un dovere, rendere infelici gli altri. Per quanto sembrerebbe che, se una certa quantità di miseria fosse una cosa tanto desiderabile, non dovrebbe importare molto se viene sopportata da ciascun uomo personalmente oppure se viene inflitta ad altri. È vero che dalla stessa origine da cui tra i fanatici religiosi deriva l’osservanza del principio dell’ascetismo, provengono anche altre dottrine e pratiche, che hanno inflitto agli uomini grandi miserie per mano di altri uomini: ne sono testimoni le guerre sante e le persecuzioni religiose. Ma la passione nell’infliggere miseria in questi casi derivava da una ragione in qualche modo speciale: il suo esercizio era riservato a persone particolari, che venivano perseguitate non in quanto uomini, ma in quanto eretici ed infedeli. Infliggere le stesse miserie ai loro compagni di religione e di setta sarebbe apparso altrettanto biasimevole anche agli occhi di quei fanatici religiosi, quanto a quelli di un seguace del principio di utilità. Infatti, dare a se stesso un certo numero di frustate era considerato degno di merito, ma sarebbe stato peccato frustare allo stesso modo un altro uomo non consenziente. Leggiamo di santi, che per il bene della loro anima, e per la mortificazione del loro corpo, si sono offerti volontariamente come preda agli insetti. Ma per quanto molte persone di questo tipo abbiano avuto in pugno le redini del potere, non leggiamo di nessuna di esse che si sia messa all’opera, a redigere leggi apposite, allo scopo di rifornire il corpo politico di briganti, ladri o incendiari. Se qualche volta hanno consentito che lo stato fosse invaso da torme di oziosi prebendari, o inutili arrivisti, è stato piuttosto per negligenza e imbecillità che per un preciso piano per opprimere e depredare il popolo. Se qualche volta hanno prosciugato le fonti della ricchezza nazionale, paralizzando il commercio, e spingendo gli abitanti all’emigrazione, è stato con altro in mente, e per altri fini. Se hanno declamato contro il perseguimento del piacere, e contro il godimento delle ricchezze, generalmente si sono fermati alla declamazione, non hanno redatto, come Licurgo, specifiche ordinanze col proposito di mettere al bando i metalli preziosi. Se hanno instaurato l’ozio per decreto, non è stato perché l’ozio, padre dei vizi e della miseria, sia in se stesso una virtù, ma perché l’ozio, dicono, è la strada verso la santità. Se in nome del digiuno hanno partecipato al piano che intendeva costringere i loro sudditi ad una certa particolare dieta, ritenuta da alcuni della più nutriente e feconda natura, non è stato per il gusto di sottometterli alle nazioni da cui ci si riforniva dei cibi adatti a quella dieta, ma per mostrare il proprio potere, e mettere alla prova l’obbedienza del popolo. Se hanno stabilito, o consentito che venissero stabilite pene per l’infrazione del celibato, non hanno fatto altro che soddisfare le richieste di quei rigoristi delusi, i quali, ingannati dalla politica ambiziosa e occulta dei loro sovrani, si erano per primi sottoposti a quel futile obbligo con un voto. § 9. Sembra che in origine il principio dell’ascetismo sia stato il sogno ad occhi aperti di certi sconsiderati pensatori, i quali, percepito o immaginato che certi piaceri, goduti in certe circostanze alla lunga venivano seguiti da dolori più che equivalenti, hanno colto l’occasione per scagliarsi contro qualsiasi cosa si presentasse sotto il nome di piacere. Dopo essersi spinti fino a questo punto, e avendo dimenticato da dove erano partiti, sono andati ancora avanti, tanto da ritenere degno di merito amoreggiare col dolore. Anche questo, come vediamo, in fondo altro non è che il principio di utilità mal applicato. § 10. Il principio di utilità può essere perseguito coerentemente, e non è altro che tautologia affermare che maggiore è la coerenza nel perseguirlo, maggiore il bene che ne deriva per la razza umana. Il principio dell’ascetismo non è mai stato e non potrà mai essere perseguito coerentemente da nessun essere vivente. Lasciate che un decimo degli abitanti della terra lo persegua con coerenza, e nel giro di un giorno l’avrà trasformata in un inferno. § 11. Tra i princìpi avversi a quello di utilità, quello che oggi sembra avere maggiore influenza sulle faccende di governo è quello che può essere definito il principio della simpatia e antipatia. Per principio della simpatia e antipatia, intendo quel principio che approva o disapprova certe azioni, non sulla base della loro tendenza ad aumentare o della loro tendenza a diminuire la felicità della parte il cui interesse è in questione, ma solo perché un uomo si trova disponibile ad approvarle o disapprovarle, presentando quell’approvazione o disapprovazione come una ragione sufficiente in se stessa, e negando che sia necessario cercare una motivazione estrinseca. Questo nel campo generale della morale, mentre nel campo particolare della politica distribuisce la giusta quantità di pena, e ne stabilisce la ragione, sulla base del grado di disapprovazione. § 12. È evidente che il principio della simpatia e antipatia è un principio più di nome che di fatto: non è un principio positivo in se stesso, quanto un termine usato per significare la negazione di tutti i princìpi. Quello che ci si aspetta di trovare in un principio è qualcosa che dia qualche indicazione esterna per giustificare e guidare i sentimenti interni di approvazione e disapprovazione. Questa attesa è mal corrisposta da una proposizione che non fa altro che presentare ciascuno di quei sentimenti come motivazione e criterio in se stesso. § 13. Un seguace di questo principio afferma che passando in rassegna il catalogo delle azioni umane, al fine di stabilire quali debbano essere marchiate col sigillo della disapprovazione non serve altro che interpellare i propri sentimenti: qualunque cosa vi mostriate propensi a condannare, è sbagliata proprio per questo motivo. Per la stessa ragione merita una pena; in che misura sia contraria all’utilità, e se lo sia davvero, non fa alcuna differenza. In quella stessa proporzione merita una pena: se odiate molto, punite duramente, se poco, leggermente: punite nella misura in cui odiate. Se non odiate affatto, non punite affatto: il raffinato sentire dell’animo non deve essere sopraffatto e tiranneggiato dagli aspri e rudi dettami dell’utilità politica. § 14. I vari sistemi che sono stati delineati sul criterio di giusto e ingiusto possono essere ricondotti tutti al principio della simpatia e antipatia. Basterà quindi un unico resoconto per tutti. Tutti questi sistemi si riducono ad altrettanti espedienti per evitare l’obbligo di appellarsi a qualche criterio esterno, e per forzare il lettore ad accettare i sentimenti o le opinioni dell’autore come una ragione, e una ragione sufficiente in se stessa. Le espressioni usate sono diverse, ma il principio è lo stesso. § 15. È evidente che i dettami di questo principio coincideranno spesso, sebbene forse non intenzionalmente, con quelli del principio di utilità. Forse questo accade più spesso di quanto non si creda, ed è per tale motivo che gli affari della giustizia penale vengono condotti su quella specie di tollerabile equilibrio, su cui vediamo che vengono comunemente condotti oggi. Infatti, quale base più naturale e più generale per odiare una certa pratica, più che la dannosità di quella pratica? Tutti li uomini tenderanno ad odiare quel che può farli soffrire. Tuttavia, è ancor lungi dall’essere una base costante; infatti quando un uomo soffre non sempre sa che cosa lo faccia soffrire. Ad esempio, un uomo può soffrire terribilmente per una nuova tassa, senza riuscire a far risalire la causa della sua sofferenza alla disonestà di qualche vicino che ne ha evasa una precedente. § 16. Il principio della simpatia e antipatia tende a cadere in errore maggiormente eccedendo in severità. Si pronuncia per la pena in molti casi che non la meritano, e in molti casi che la meritano ne applica una più dura di quanto non meritino. Non c’è alcun avvenimento immaginabile, fosse anche banale e lontano dal provocare danno, dal quale questo principio non riesca ad estrarre una base per la pena. Diversità di gusti, diversità di opinioni in un soggetto come in un altro. Non c’è disaccordo tanto insignificante che l’ostinazione e l’alterco non riesca a rendere serio. Ciascuno diventa nemico agli occhi dell’altro e, se la legge lo permette, un criminale. Questa è una delle caratteristiche per cui la razza umana si distingue (a dire il vero non molto a suo vantaggio) da quella degli animali. § 17. Tuttavia, questo principio dà anche esempi di eccesso di clemenza. Un danno vicino e percettibile suscita antipatia. Un danno remoto e impercettibile, per quanto non meno reale, non fa alcun effetto. A prova di questa affermazione saranno dati esempi nel corso del presente lavoro. Fornirli ora ne sconvolgerebbe l’ordine. § 18. Forse ci si potrebbe chiedere perché finora non sia stata fatta menzione del principio teologico, intendendo con ciò quel principio che professa il ricorso alla volontà di Dio come criterio di giusto e ingiusto. Ma il fatto è che non si tratta di un principio distinto. Non è altro che l’uno o l’altro dei tre princìpi sopra menzionati, sotto altra forma. La volontà di Dio qui intesa non può essere la sua volontà rivelata, come quella contenuta nelle sacre scritture, poiché nessuno al giorno d’oggi pensa ricorrere ad essa per i dettagli di amministrazione politica. Inoltre, anche prima di poter essere applicata ai dettagli della condotta privata, essa è suscettibile di svariate interpretazioni, come è universalmente riconosciuto dai più eminenti teologi di ogni fede (altrimenti a che servirebbero i loro scritti?). È riconosciuto anche che per orientarsi in mezzo a queste diverse interpretazioni si deve ricorrere a qualche altro criterio. Perciò, la volontà che si intende in questo caso è quella che può essere definita volontà presuntiva, vale a dire quella che viene presunta come volontà divina sulla base della conformità dei suoi dettami a quelli di qualche altro principio. Ma allora quale può essere quest’altro principio? Deve essere o l’uno o l’altro dei tre sopra menzionati, poiché, come abbiamo visto, non ce ne possono essere altri. È chiaro, quindi, che, lasciando la rivelazione fuori dalla discussione, non si riesce a far luce sul criterio di giusto e ingiusto per mezzo di qualcosa che si può affermare su quale sia la volontà di Dio. Comunque, possiamo esser certi che tutto ciò che è giusto è conforme alla volontà di Dio, ma questo è tanto lungi dal rispondere al proposito di mostrarci che cosa sia giusto, che è necessario sapere prima se una cosa è giusta, per sapere poi, in base a ciò, se è conforme alla volontà di Dio. Ci sono due cose che tendono molto ad essere confuse, e che invece per noi è importante tenere accuratamente distinte: il movente o la causa che, operando nella mente di un individuo, produce un atto; e il fondamento o la ragione che legittima un legislatore, o un altro spettatore, a considerare quell’atto con approvazione. Quando accade che l’atto, nel particolare caso in questione, produce effetti che noi approviamo, e molto più se ci capita di osservare che lo stesso movente può spesso produrre, in altri casi, uguali effetti, tendiamo a trasferire la nostra approvazione al movente in se stesso, e ad assumere come giusta base per l’approvazione che attribuiamo all’atto il fatto che deriva da quel movente. È in questo modo che il sentimento dell’antipatia è stato spesso considerato una giusta base per l’azione. Ad esempio, l’antipatia, in questo o quel caso, è causa di un’azione che viene compiuta con buoni effetti, ma questo non la rende una base giusta per l’azione in quel caso più che in un altro. Dirò di più: prendiamo il caso che non solo gli effetti siano buoni, ma che chi agisce riesca a prevedere che lo saranno. Questo può rendere l’azione perfettamente giusta, ma ugualmente non rende l’antipatia una base giusta per l’azione. Infatti il medesimo sentimento di antipatia, se ci si rimette ad esso implicitamente, può produrre, e molto spesso produce, i peggiori effetti. Perciò l’antipatia non può mai essere una giusta base per l’azione. A maggior ragione, quindi, non può esserlo il risentimento, che, come vedremo più in particolare in seguito, non è altro che una modificazione dell’antipatia. L’unico fondamento per l’azione che possa concepibilmente sussistere è, alla fine, la considerazione dell’utilità, che, se è un principio giusto di azione e di approvazione in un caso qualunque, lo è in ogni altro. Molti altri princìpi, cioè altri moventi, possono essere le ragioni per cui un certo atto è stato compiuto, cioè le ragioni o le cause del suo venir compiuto: ma solo l’utilità può essere la ragione per cui potrebbe o dovrebbe essere stato compiuto. L’antipatia o il risentimento richiedono sempre di essere regolate, per impedire che facciano del male. Ma regolate da cosa? Sempre dal principio di utilità. Il principio di utilità non richiede né ammette altro regolatore che se stesso.

 

(J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, cap.II)