CICERONE, I legislatori sono superiori ai filosofi

 

Questo brano è una testimonianza esemplare del caratteristico pragmatismo latino: a detta di Cicerone, infatti, la realizzazione concreta della virtù si ha solo in un buon governo dello Stato, e non nelle parole dei filosofi che disquisiscono nel chiuso delle loro scuole.

Nulla infatti è detto dai filosofi, di quello almeno che è detto esattamente e onestamente, che non sia già stato prodotto e confermato da coloro dai quali sono state scritte le leggi per gli Stati. Donde proviene infatti la pietà e da chi il sentimento religioso? Donde il diritto internazionale o questo stesso che si chiama "diritto civile"? Donde la giustizia, la buona fede, l’equità? Donde il pudore, la temperanza, il ribrezzo per l’immoralità, l’aspirazione alla lode e al decoro? Donde la forza nelle fatiche e nei pericoli? Certo da coloro che questi principi, formalizzati nelle teorie, confermarono alcuni con le usanze, altri invece li sancirono con le leggi. Ché anzi dicono che Senocrate, filosofo assai nobile, quando gli veniva chiesto che cosa i suoi allievi conseguissero, rispondeva che conseguivano di fare spontaneamente ciò che erano costretti a fare dalle leggi. Dunque quel cittadino che costringe tutti, con l’imperativo e la punizione delle leggi, a fare ciò di cui i filosofi possono convincere a stento pochi con il discorso, deve essere preferito anche a quegli stessi maestri che di quelle cose discutono. Infatti quale disquisizione di costoro è così raffinata da dover essere anteposta ad una città ben organizzata sia per istituzioni pubbliche sia per costumi? Orbene, come ritengo che "le città grandi e possenti", come le chiama Ennio, debbano essere preferite ai villaggi e ai borghi, così coloro che sono a capo di queste città con saggezza ed autorità giudico che debbano essere di gran lunga anteposti nella stessa sapienza a coloro che sono inesperti di ogni faccenda politica.

 

(Cicerone, De re publica 1.2)