DEMOSTENE, contro Conone

 

Maltrattato e picchiato in questo modo, giudici, dal qui presente Conone, tanto che per molto tempo sembrava ai miei parenti ed ai medici che io non dovessi cavarmela, guarito inaspettatamente intentai contro di lui questa causa per violenza privata. Poiché tutti i parenti e gli amici a cui chiedevo consiglio affermavano che egli era passibile, in base ai fatti, di essere portato via in carcere per furto d’abiti e di essere processato per violenza pubblica, ma mi consigliavano e mi esortavano a non tirarmi addosso fastidi maggiori di quanto potessi sopportare e non sembrare che facessi accuse per i fatti che avevo subito sproporzionate alla mia età, feci così e, secondo i loro consigli, gli intentai una causa privata, mentre gli avrei intentato con il più grande piacere, Ateniesi, un’accusa capitale! E mi perdonerete tutti quest’odio – lo so bene – quando ascolterete cosa ho subito: benché, infatti, sia grave l’ingiuria capitata allora, non è meno grave il comportamento tenuto da costui dopo il fatto. Pretendo e prego per prima cosa che tutti voi mi ascoltiate con benevolenza mentre racconto le offese subite, poi, qualora vi sembri che io abbia subito ingiustizia e sia stata violata contro di me la legge, mi aiutiate a fare giustizia. Vi esporrò dunque da principio come ciascun fatto sia stato compiuto, quanto più brevemente sia capace di fare. Partii due anni or sono per Panatto, essendo stati chiamati per il servizio militare. Si accamparono vicino a noi i figli di questo Conone … come vorrei che non fosse accaduto! Da quella circostanza, infatti, prese l’avvio l’odio ed il dissenso tra di noi; ascolterete ora cosa ne sia scaturito. Costoro bevevano ad ogni ora del giorno, appena dopo la colazione, e continuavano a farlo, finchè rimanemmo nel servizio di leva. Noi ci comportavamo fuori (da Atene) proprio come eravamo soliti fare in città. Quando era il momento per gli altri di prendere il pasto, costoro già compivano violenze da ubriachi, di solito contro i nostri schiavi al seguito, per finire poi contro noi stessi. Poiché, infatti, dicevano che i nostri servi li molestavano con il fumo quando preparavano da mangiare e parlavano male di loro, non perdevano occasione di picchiarli, versavano loro addosso i vasi da notte e orinavano loro addosso, e non trascuravano nessun oltraggio e nessuna violenza. Noi, dunque, vedendo questi gesti e risentendoci, dapprima li respingemmo, poiché poi ci prendevano in giro e non la smettevano, riferimmo l’accaduto allo stratega, andando noi compagni di mensa tutti insieme, non io da solo. Benché, poi, egli li avesse rimproverati e maltrattati non solo per le offese nei nostri confronti, ma anche in generale per quello che facevano nell’accampamento, furono tanto lontani dallo smetterla o dal vergognarsi, che, appena si fece notte, subito quella sera stessa balzarono su di noi e, se prima ci ingiuriavano, finirono poi per riempirmi di botte e fecero tanto rumore e tanta confusione nella tenda, che vennero anche lo stratega, i taxiarchi ed alcuni degli altri soldati, che impedirono che subissimo qualcosa di irreparabile o che lo facessimo a loro, noi aggrediti da costoro.

 

(Demostene, Contro Conone, 1-5)