Massimo Donà, Filosofia del vino

 

Filosofia e scienza, filosofia e morale, filosofia e diritto... In una compagnia tanto illustre e ormai da tempo codificata, potrebbe apparire singolare questo nuovo binomio: filosofia e vino, o, più esattamente, filosofia del vino. Pure, a ben guardare, seppure inconsueto, il binomio è tutt'altro che ingiustificato, poiché il rapporto tra vino e filosofia può aiutarci a far luce su uno degli aspetti fondamentali e più affascinanti del vero filosofare. Da sempre infatti lo spirito più autentico della filosofia è caratterizzato da una essenziale oscillazione: teso a disegnare i confini della misura consentita, di quello che può essere definito buono e vero, è a un tempo irresistibilmente chiamato a infrangerli. Se per la filosofia il problema è quello della misura, sarebbe tuttavia difficile negare che possano essere dette cose assennate e credibili intorno alla "misura" soltanto partendo da una prospettiva radicalmente "smisurata". Bisogna porsi di là dalla misura per essere in grado di misurarla. O, in altre parole, la misura non può essere misurata se non alla luce del suo oltre. Poste queste premesse, dovrebbe apparire quasi inevitabile la conclusione che gli effetti di un sano abbandono ai piaceri del vino, con la loro conseguente dis-misura, possano essere considerati parte integrante di una esperienza genuinamente filosofica. Soltanto chi li abbia sperimentati, con quella moderazione che molte menti del passato giudicavano condizione indispensabile perché la familiarità con il vino debba dirsi positiva, potrà ragionevolmente farsi consapevole del limite che separa il bene dal male o il vero dal falso. La bevanda tratta dalla vite ha infatti tutti i requisiti per essere assunta come icona dell' ambiguità che esprime il senso più profondo del vero. Nessuna autentica esperienza di verità ha mai realmente sopportato - sebbene si siano adottate le strategie più diverse per dimostrare il contrario - le univoche strettoie in cui spesso ci racchiude il dominio di una ragione troppo sobria per essere davvero credibile. Non a caso il vino, che può aiutarci a uscire dai confini di quelle strettoie, a superare la limitatezza di una ragione troppo sobriamente umana, veniva originariamente chiamato "nettare degli dei", e il nome esprimeva un vero e proprio simbolo sacro. Mentre il modo, le forme in cui la bevanda veniva di volta in volta assunta costituiscono una significativa cartina di tornasole per comprendere il modo di essere più generale nel quale di volta in volta si è espressa la vita degli uomini sin dai tempi più antichi. Se è infatti vero che il vino comincia ad acquisire una serie di importanti significati proprio da quando la cultura filosofico-religiosa (e quella poetico-letteraria) lo assumono quale simbolo di precise esperienze rituali, di rigorose pratiche conoscitive, non è meno vero che il suo utilizzo risale a tempi assai più remoti. Ricerche archeologiche attente hanno ormai provato che la vitis vitifera, pianta rampicante che cresceva spontanea nelle foreste e che è certamente all'origine di quei preziosi e delicati arbusti che sarebbero poi stati coltivati per ottenere il "nettare degli dei", affondava le sue radici nella terra già trecentomila anni fa. E nasce allora spontanea la curiosità di immaginare quale fu la sorpresa di chi per primo assaggiò il succo spremuto dal frutto di quella pianta, rimasto a lungo in qualche rudimentale contenitore. Dovette senza dubbio avvertire, quel primo "assaggiatore" (se davvero è esistito un primo "assaggiatore"), che il succo si era radicalmente trasformato, aveva preso un gusto affatto diverso, provocando una condizione strana, e certamente piacevole, che altri, dopo di lui, avrebbe definito "ebbrezza", rendendo il cervello "perspicace, vivo, inventivo, pieno di forme agili, ardenti e dilettevoli". Fonte di ebbrezza, il vino si trovò presto a svolgere un ruolo tutt'altro che indifferente nell'esercizio di pratiche religiose legate a quell'irrinunciabile desiderio di superamento dei consueti schemi quotidiani che sembrava poter condurre a un vero e proprio contatto con la divinità. Vino e spiritualità, dunque; vino e conoscenza. E sarebbe forse possibile non passare dall'accostamento con la conoscenza a quello con la filosofia? [...] In breve, è l'influsso del nettare dionisiaco a permettere di accedere a quello che costituisce il fine più vero dei riti orgiastici e insieme purificatori connessi alla divinità dell'ebbrezza: un rapporto di perfetta "unità" con il proprio oggetto, e quindi con l'altro da se stessi. L'effetto dell'assunzione di una adeguata (ma certamente non eccessiva) quantità di vino sembra in ultima analisi costituito da una migliore visione o esperienza dell' unità - visione che in condizioni normali sarebbe destinata a sottrarsi alla potenza del vedere. L'unità, infatti, è originariamente "indeterminata". Di conseguenza, un intelletto sano, sobrio, può concepirla soltanto "concettualizzandola", rendendola "determinata", tradendo così la sua vera natura. Se, al contrario, la facoltà di comprendere viene portata all'estremo, viene fatta esplodere affinché lasci spazio a una compiuta epopteia (la contemplazione, intesa, nei Misteri Eleusini, come ultimo grado del processo di unione con il divino), l'unità potrà essere concepita, attinta, nella sua originaria indeterminatezza. Ma l'essere umano, con le sue sole forze, non può giungere a tanto; diventa allora necessaria la vis, la forza custodita nella sostanza eccitante di cui è impregnato il nettare degli dei. Ne era pienamente consapevole anche Platone. Con lui giungiamo in ambito più strettamente filosofico. Sulla scorta degli insegnamenti del pitagorico Archita (govenatore di Taranto), e di Socrate, Platone avrebbe infatti indicato nelle libagioni, di vino, ma anche più in generale di alcolici, la premessa adeguata di ogni seria meditazione filosofica. E non vi è da stupirsi che proprio da un pitagorico Platone abbia appreso la via dal vino alla filosofia, se la giornata ideale del pitagorico era in verità quale la descrive il filosofo neoplatonico Giamblico. Inaugurata da passeggiate solitarie in luoghi tranquilli, quali templi e boschi, o in ambienti gradevoli e rasserenanti (i pitagorici pensavano di dover disporre convenientemente il loro animo prima di stabilire un contatto con altre persone), la giornata veniva dedicata innanzitutto all'attività sociale dell'insegnamento e dell'apprendimento. La colazione doveva essere frugale, con pane, miele e decotto di mele, e durante il giorno non era concesso gustare vino. Ci si occupava poi degli affari della città fino a sera, e dopo aver ripreso a passeggiare, non più da soli, ma in piccoli gruppi, gli adepti delle teorie pitagoriche avevano l'obbligo di ritornare sugli insegnamenti ricevuti, esercitandosi in "buone azioni". Poi si concedevano il piacere di un bel bagno, e infine sedevano a mense comuni, in gruppi di dieci. Soltanto a questo punto entrava in scena la libagione. Una volta riunitisi tutti - afferma Giamblico - facevano libagioni e sacrifici con profumi e incenso. Poi iniziava il pranzo. Allora bevevano vino mangiando focaccia, pane, carne, verdure cotte e crude. Si nutrivano della carne degli animali che era lecito sacrificare agli dei: raramente consumavano pesce. Finito il pranzo, libavano; quindi leggevano. Era consuetudine che il più giovane leggesse e il più vecchio sorvegliasse la lettura, spiegando che cosa e come si doveva leggere. Al momento di congedarsi, il coppiere versava altro vino per libare; infine il più vecchio recitava una formula di rito e ognuno rientrava nella propria casa. Un modo, come si vede, minuziosamente ordinato di vivere le proprie giornate e di consumare la bevanda propizia alle meditazioni filosofiche. [...] Socrate non poteva dunque non farsi testimone di un radicale rovesciamento di prospettiva; non poteva non apparire altro da quello che era. Anche nel suo rapporto con il bere: all'apparenza un ubriacone, in verità immune dagli effetti che l'eccesso del bere avrebbe provocato in ogni essere umano. Al termine del banchetto, in un'ultima sottolineatura dell'eccezionalità di Socrate uomo parallela all'eccezionalità della sua filosofia, quando tutti sono irrimediabilmente ubriachi, il filosofo, ancora e sempre padrone di sé, mette gli altri a dormire e se ne va al Liceo dove, dopo essersi lavato, "trascorse tutta la giornata come le altre volte" (Simposio, 223 d). Il "divino" Socrate - così veniva definito dai suoi seguaci - sfugge alle leggi della causa e dell'effetto. Come, con la parola, in quel dialogare continuo che è il suo modo di fare filosofia, coglie di sorpresa l'ascoltatore; così, nella sua persona, vanifica le leggi naturali, sottraendosi alle conseguenze consuete di un bere eccessivo. Non si ubriaca, non esce di senno, non va fuori di sé. Al contrario, quel sé che si interroga e dubita e interroga gli altri, sembra venire rafforzato dagli effetti del bere. Egli appare convinto che lo stato di ubriachezza cui si era soliti associare la più radicale impossibilità di essere veramente se stessi offra piuttosto la possibilità di una più autentica manifestazione di ciò che davvero si è. Nel vino dunque è la verità, anche la verità del proprio io. [...]

IL RINASCIMENTO
Agli inizi del Cinquecento (1509), Erasmo da Rotterdam, per ingannare la noia durante un viaggio di ritorno dall'Italia, compose L'elogio della follia. Parlando in prima persona, la Follia si autoelegge "fonte del primo e principale piacere della vita"; d'altra parte, si chiede, "varrebbe la pena di chiamare vita la vita se non ci fosse il Piacere?"; e non a caso - ribadisce - il grande Sofocle avrebbe scritto: "La vita è più bella quando non si ragiona." Parole che non possono non sorprendere, paragonate a quelle, appena rievocate, di Agostino o Tommaso. La verità è che, concluso il periodo medioevale, si assiste, nei rapporti tra filosofia e vino, a un vero e proprio rovesciamento di prospettiva.

 

(Massimo Donà, Filosofia del vino)