Epitteto, Teoria e pratica

         Epitteto, anche se non arriva all’identificazione della filosofia con l’impegno politico – come era stato per la media Stoá e ancor piú per Cicerone –, non concepisce il filosofo come uno studioso che contempla in modo astratto la Verità: la sapienza è tale quando è messa in pratica.

 

Manuale, 49

 

         Quando qualcuno si vanterà o si terrà d’assai per sapere intendere o poter dichiarare i libri di Crisippo, dí teco stesso: se Crisippo non avesse scritto oscuro, costui non avrebbe di che gloriarsi. Ma che è poi veramente quel che io desidero? Intender la natura e seguirla. Cerco dunque chi sia quello che me la interpreti. E sentendo esser Crisippo, vo a lui. Ma non intendo il suo scrivere. Cerco dunque uno che me lo esponga. E fin qui non ci ha materia veruna di gloriarsi. Trovato lo spositore di Crisippo, resta che io metta in pratica gli ammaestramenti ch’io ricevo. E in ciò solo consiste quel che fa onore. Ma se io invaghirò della facoltà medesima della interpretazione, che altro mi verrà fatto se non che io diverrò un grammatico anzi che un filosofo? salvo che invece di Omero chioserò Crisippo. Piuttosto dunque, se uno dirà: leggimi Crisippo, egli mi conviene arrossire, quando io non possa mostrare i fatti concordi e somiglievoli alle parole.

 

(Epitteto, Manuale, Rizzoli, Milano, 1996, pagg. 122-123)