Fichte, Io assoluto e io divisibile

Se l’io assoluto (“puro”, svincolato da ogni determinazione empirica), che, quando “si pone”, identifica se stesso con il Tutto, opponesse a sé la propria negazione assoluta, produrrebbe la propria autoeliminazione, come succede con le grandezze limitate (la somma di +X e éX è zero). Il Nulla (non-io) occuperebbe tutto lo spazio dell’Essere (io); quindi l’io che pone l’opposto a sé deve lasciare una parte di essere per sé: il non-io (esterno ed eterogeneo all’io), nega soltanto una parte dell’io, perché non è il Nulla ma soltanto una parte di esso. In questo modo il non-io si configura come limite.

 

J. G. Fichte, Fondazione di tutta la dottrina della scienza, par. 3

 

Dobbiamo pertanto, come sopra, fare un esperimento e domandarci: come possono A e -A, essere e non-essere, realtà e negazione, essere pensati insieme senza che si distruggano e si sopprimano?

Non è da aspettarsi che qualcuno possa rispondere a questa domanda in altro modo che il seguente: essi si limiteranno reciprocamente [...].

Limitare qualcosa significa sopprimerne la realtà non totalmente, ma solo in parte, mediante una negazione. Nel concetto dei limiti è dunque implicito, oltre a quelli della realtà e della negazione, anche il concetto della divisibilità (della capacità di quantità in generale, non proprio di una quantità determinata) [...].

Al tempo stesso che all’io è opposto un non-io, l’io, a cui è opposto, e il non-io, che è posto, sono posti come divisibili [...].

In quanto è posto il non-io, dev’essere anche posto l’io; entrambi, infatti, sono posti in generale come divisibili, secondo la loro realtà.

Ora soltanto per mezzo del concetto enunciato si può dire di entrambi: essi sono qualcosa. L’io assoluto del primo principio non è qualcosa (non ha alcun predicato né può averne alcuno): esso è assolutamente ciò ch’esso è; e ciò non può essere ulteriormente chiarito. Ora, per mezzo di questo concetto, tutta la realtà è nella coscienza; e di essa spetta al non-io quella che non spetta all’io, e viceversa. Entrambi sono qualcosa: il non-io ciò che non è l’io, e viceversa. Opposto all’io assoluto (cui, però, esso può essere opposto soltanto in quanto è rappresentato, e non in quanto è in sé), il non-io è assolutamente nulla; opposto all’io limitabile, esso è una grandezza negativa.

L’io dev’essere identico a se stesso oppure deve essere opposto a se stesso. Ma esso è identico a se stesso nei riguardi della coscienza: la coscienza è unica, ma in questa coscienza è posto l’io assoluto come indivisibile, mentre l’io, a cui è opposto il non-io, è posto come divisibile. Perciò l’io, in quanto gli è opposto un non-io, è esso stesso opposto all’io assoluto.

E cosí, dunque, sono conciliate tutte le opposizioni, senza pregiudizio per l’unità della coscienza; e questa è insieme la prova che il concetto enunciato era quello giusto [...].

La misura di ciò che è incondizionatamente ed assolutamente certo è ormai esaurita; ed io l’esprimerei, press’a poco, nella formula seguente: io oppongo nell’io all’io divisibile un non-io divisibile.

Oltre questa conoscenza non va nessuna filosofia; ma ogni filosofia che si voglia esauriente deve risalire fino ad essa, e quando lo fa diventa dottrina della scienza. Tutto ciò che d’ora in avanti si presenterà nel sistema dello spirito umano, deve potersi dedurre da ciò che è stato esposto.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XVII, pagg. 923-925)