FICHTE, CHE COSA SI INTENDE PER POPOLO

 

Capitolo VIII - Che cosa s'intende per popolo nel senso alto della parola e che cosa è l'amor patrio

 

Gli ultimi quattro discorsi sono stati la risposta alla seguente domanda: che cosa sono i Tedeschi di fronte agli altri popoli di origine germanica? La dimostrazione deve servire per l'insieme del nostro studio e sarà completa se noi vi avremo aggiunto un'indagine per rispondere alla domanda: che cosa è un popolo? E questa domanda è simile, e nello stesso tempo risponde ad un'altra domanda, che è stata fatta spesse volte ed alla quale s'è risposto in vari modi, e cioè: che cosa è amor patrio; o per esprimerci meglio: che cosa è l'amore del singolo verso la sua nazione?

 

Se nell'insieme della nostra indagine abbiamo sempre proceduto con ordine, ora deve essere chiaro, che soltanto il Tedesco - l'uomo vivo e non mummificato in un dogma arbitrario - ha veramente un popolo e può farvi assegnamento, che soltanto i Tedeschi sono capaci di nutrire per la loro nazione un amore vero e razionale.

 

Considerato nel senso superiore della parola, cioè in rapporto all'idea di un mondo spirituale, un popolo è quell'insieme di uomini che vivono fra di loro in società, si producono da loro senza interruzione spiritualmente e materialmente, quell'insieme dico, nel quale il divino si svolge seguendo una determinata legge speciale. La comunanza è appunto ciò che unisce questa massa nel mondo eterno e quindi pure nel temporaneo, e ne fa un tutto naturale e impregnato di se stesso. Quanto al suo contenuto, questa legge può essere abbracciata nell'insieme, così come noi l'abbiamo tratteggiata per i Tedeschi considerati come popolo primitivo.

 

Quella legge finisce di stabilire e completa ciò che s'è chiamato il carattere nazionale di un popolo; quella legge dello sviluppo del primitivo e del divino. Da ciò risulta chiaro che uomini, i quali (come gli stranieri quali noi li abbiamo descritti) non credono in un che di primitivo e nello svolgimento del medesimo, ma credono soltanto in un movimento eternamente circolare e ricorrente della vita fenomenica, e che secondo quanto credono, tali diventano, non sono un popolo (e in realtà essi neppure esistono) e tanto meno sono in grado di avere un carattere nazionale.

 

La fede dell'uomo nobile che la sua opera su questa terra abbia eterna durata, si basa, secondo quella legge segreta, sulla speranza che rimanga eterno pure il popolo nel quale egli si è sviluppato e il carattere del medesimo, e ciò senza che si intrometta a corromperlo qualcosa di estraneo e non appartenente all'insieme di questa legislazione. (...)

 

Questo è il suo amore per il suo popolo; anzitutto venerazione per esso, fiducia in esso, gioia e vanto di appartenervi. Il divino è apparso in lui, e il primitivo s'è degnato di farne nel mondo il proprio ricettacolo onde irradiare direttamente; perciò da lui uscirà sempre un che di divino. Così egli poi lavora, agisce e si sacrifica in suo nome. La vita come vita, come continuazione dell'esistenza mutevole, non ebbe per lui mai alcun valore; egli l'accettò soltanto come fonte duratura. Ma una tale durata egli si può ripromettere solo se duri indipendente la sua nazione. Per salvarla, egli deve esser pronto a morire; purché questa viva ed egli viva in essa l'unica vita ch'egli ha sempre voluto. (...)

 

Popolo e patria, considerati come portatori e pegni dell'eternità terrena e di tutto ciò che può essere eterno quaggiù, stanno ben al di sopra dello Stato, - preso nel senso volgare della parola - e dell'ordine sociale, quando quest'ordine viene concepito nel suo significato puro e poi messo in pratica e mantenuto in base a questo significato. Esso vuole diritto sicuro, pace interna e che ognuno col proprio lavoro possa provvedere al proprio sostentamento e conservare la sua esistenza materiale fino che Dio glie lo conceda. Questo però non è altro che il mezzo e la condizione per raggiungere ciò che l'amor patrio vuole veramente, cioè il rifiorimento dell'eterno e del divino, sempre più puro, più perfetto, più adatto nel suo svolgimento infinito. L'amor patrio deve reggere lo Stato come autorità massima ultima e indipendente, per limitare il medesimo nella scelta dei mezzi necessari al suo fine prossimo, cioè la pace interna. Questo fine richiede certamente che si limiti in varie maniere la libertà naturale; se non si avesse nessun altro riguardo e nessun altro scopo che questo, si farebbe bene da limitare la libertà quanto più sia possibile, a uniformare tutti i suoi movimenti in una regola, e a tenerla sempre sotto ininterrotta sorveglianza. (... )

 

L'amor patrio che regge lo Stato deve, quindi, farvi prevalere un fine superiore a quello volgare del mantenimento della pace interna, della proprietà, della libertà personale, della vita e del benessere di tutti. Soltanto per questo fine superiore e non per altro, lo Stato mette assieme una forza armata. Quando si comincia a parlare dell'uso di questa, quando è permesso arrischiare tutti i fini dello Stato astrattamente inteso, cioè proprietà, libertà personale, vita, benessere e perfino l'esistenza dello Stato stesso, senza aver un'idea chiara se sarà possibile raggiungere con certezza la meta (ciò che non è possibile in cose di simile genere, che sono primitive e Iddio solo ne può rispondere) allora si può dire che al governo dello Stato vive una vita veramente originale e prima. A questo punto cominciano i veri diritti di maestà del governo per cui esso può arrischiare, simile a Dio, la vita inferiore in nome di una vita superiore. Nel mantenere la costituzione trasmessa, le leggi, il benessere dei cittadini non sta né la vera e propria vita né una risoluzione originale.

 

Con questa fede i nostri comuni antenati, il popolo schietto, il popolo della nuova cultura, i Tedeschi che i Romani chiamavano Germani, si opposero coraggiosamente al dominio invadente dei Romani. Forse non videro essi coi loro occhi lo splendore delle provincie romane, i gusti più raffinati di queste e le leggi, i tribunali, i fasci con le scuri? Non erano forse i Romani disposti a farli partecipi di tutte queste benedizioni? Libertà significava per loro rimaner Tedeschi, risolvere le proprie questioni indipendentemente e originalmente secondo il loro spirito, andar avanti nel proprio ulteriore sviluppo, seguendo il loro spirito, e tramandare ai posteri questa indipendenza; schiavitù erano per loro tutte quelle benedizioni che i Romani offrivano loro, perché con esse sarebbero diventati altra cosa che Tedeschi, avrebbero dovuto diventare mezzo Romani.

 

Noi che abbiamo ereditato la loro terra, la loro lingua, le loro idee, dobbiamo a loro se siamo rimasti Tedeschi e se la corrente di vita primitiva e indipendente ci porta ancora; ad essi rendiamo grazie di ciò che fummo poi come nazione e a loro renderemo grazie di ciò che diverremo in seguito, ove non sia giunta già l'ora della nostra fine e non si sia disseccata l'ultima goccia del loro sangue che scorreva nelle nostre vene. Anche gli altri popoli della nostra stirpe che ora ci sono divenuti stranieri, ma che pure per merito degli avi ci sono fratelli, devono render grazie a loro della propria esistenza, nessuno di questi popoli esisteva ancora quando essi sconfissero Roma eterna; quella vittoria rese possibile il loro sorgere.

 

Da ciò risulta: che lo Stato da solo, come il governo della vita umana procedente in regola e in pace, non è un che di primo e indipendente, ma soltanto il mezzo per un fine più alto, cioè educare nella nazione ciò che è puramente umano e progredisce in modo eternamente uniforme; che soltanto la vista e l'amore di questo progresso deve esercitare continuamente, anche in tempi di quiete, un controllo superiore sull'amministrazione dello Stato e, qualora il popolo corra il pericolo di perdere la propria indipendenza, deve essere in grado di salvarlo.

 

Presso i Tedeschi noi troviamo, come soltanto presso i Greci, in altri tempi, lo Stato separato dalla Nazione e rappresentati ognuno da sé, il primo nei regni e principati tedeschi, la seconda, - attuantesi visibilmente nella federazione e invisibilmente in forza d'una legge che non è scritta in nessun luogo, ma vive in tutti gli spiriti, talché gli effetti balzano agli occhi di ognuno - in una quantità di usanze e di istituzioni. Coloro che nascevano entro il raggio dove si estendeva la lingua tedesca, potevano considerarsi cittadini due volte: prima, dello Stato natio, a cui era affidata la loro cura in primo luogo, e poi, di tutta la patria comune della Nazione tedesca. A ognuno era permesso cercarsi nella sua patria quella cultura che aveva la maggior affinità col suo spirito, oppure il campo d'azione più adatto a quest'ultimo; il talento, non era costretto a crescere, come un albero, sul posto, ma poteva cercarsi il proprio posto.

 

Così, malgrado le meschinità e parzialità dei singoli Stati, in Germania, presa nell'insieme, c'era la massima libertà di indagini e di comunicazione, che abbia mai posseduto un popolo. La conseguenza del continuo scambio di cittadini fra tutti gli Stati tedeschi è stata la cultura superiore, la quale, in questa stessa forma poté a poco a poco discendere fra il popolo grosso, che a questo modo ebbe sempre la possibilità di educarsi in generale da solo.

 

Questi discorsi vi espongono l'unico mezzo che ancora ci resta, dopo aver provati inutilmente tutti gli altri, per evitare che ogni più nobile nostro impulso vada distrutto e che tutta la nostra nazione sia avvilita. Vi offrono di creare per mezzo dell'educazione in tutti gli spiriti, profondo e inestinguibile, il vero e onnipotente amor patrio consistente nel concepire il nostro popolo come qualche cosa di eterno e come il garante - per mezzo dell'educazione - della nostra propria eternità. Nei prossimi discorsi vedremo quale educazione è capace di tanto, e come sia capace di ciò.

 

(G. Fichte, Discorso alla nazione tedesca)