FILONE DI ALESSANDRIA, UN POGROM AD ALESSANDRIA

 

XVII. Contro gli Ebrei si scatenò allora una guerra spietata, senza quartiere. Esiste per lo schiavo sciagura peggiore che avere ostile il padrone? Quando un imperatore è assolutista i suoi sudditi sono schiavi; e se non fu così sotto nessuno degli imperatori precedenti, perché il loro governo era improntato a moderazione e a rispetto delle leggi, la cosa si avverò con Gaio che si era sradicato dal cuore ogni senso di clemenza e aveva fatto suo il culto dell’illegalità. Convinto di impersonare lui stesso la legge, abolì come vuote chiacchiere quelle compilate dai legislatori di ogni parte del mondo. E quando si mutò in tiranno dispotico, noi fummo tenuti non solo in conto di schiavi, ma degli schiavi più abietti. XVIII. Non appena quell’accozzaglia di gente sediziosa che è il popolaccio di Alessandria ebbe sentore del fatto, pensò fosse venuto i momento giusto per attaccarci e diede libero sfogo all’odio che covava da tempo, diffondendo ovunque il caos e lo scompiglio. Ci distrussero con furia folle e selvaggia, quasi l’imperatore ci avesse dato in loro balia perché toccassimo col suo tacito consenso il fondo della sventura o perché fossimo trattati come nemici vinti in guerra. Presero d’assalto le nostre case e ne cacciarono i padroni, lasciandole disabitate. Non avevano più bisogno di attendere le tenebre della notte per rubare suppellettili e oggetti preziosi, come fanno i ladri per paura di essere arrestati, ma li portavano fuori apertamente, alla luce del sole, e li facevano vedere ai passanti, come chi ha avuto un’eredità o ha comperato della roba dai legittimi proprietari Quando erano in più a collaborare nelle rapine, si spartivano poi il bottino al centro della piazza, spesso sotto gli occhi dei padroni che andavano coprendo di insulti e di dileggi. Era questa, di certo, una situazione terribile in se stessa: che i ricchi diventassero poveri, i benestanti nullatenenti, così all’improvviso, senza aver fatto nulla di male, che si vedessero privati della casa e del focolare, cacciati ed espulsi dalle proprie dimore, costretti a vivere giorno e notte a cielo scoperto o a morire uccisi dalla vampa del sole o dal gelo notturno. Eppure il disastro finiva per apparire lieve in confronto a quanto siamo per dire. Essi spinsero fuori della città decine di migliaia di uomini donne bambini e li rinchiusero in uno spazio ristrettissimo, come branchi di bestie in un recinto, pensando che entro pochi giorni avrebbero trovato cataste di cadaveri, perché gli Ebrei sarebbero morti d’inedia per mancanza dello stretto indispensabile, non essendosi premuniti contro quella sciagura improvvisa, prevedibile solo per divinazione, oppure sarebbero rimasti soffocati nell’affollamento. Non c’era, dove stavano, spazio da muoversi e persino l’atmosfera si era infettata avendo perduto gli elementi vitali per la respirazione o, a essere più esatti, per gli ansiti dei moribondi. Infiammata da questi e in certo senso colta da un attacco di febbre essa stessa, l’aria immetteva nei nasi e nelle bocche un soffio caldo e nocivo, aggiungendo fuoco a fuoco, come dice il proverbio. Infatti le parti interne del corpo hanno per costituzione naturale un grado di temperatura molto elevato; ora, quando i soffi d’aria che penetrano dall’esterno sono freschi, gli organi della respirazione funzionano bene per la temperatura mite che ne risulta; quando invece l’aria inspirata è troppo calda, inevitabilmente funzionano male perché si aggiunge appunto fuoco a fuoco. XIX. Gli Ebrei, non potendo resistere oltre alla penosa mancanza di spazio, si riversarono nel deserto, sulle spiagge e nei cimiteri, alla ricerca affannosa di un po’ d’aria pura e sana. Intanto, quelli che erano già stati catturati in altre parti della città o che erano capitati ad Alessandria dalla campagna, ignari delle calamità abbattutesi su di noi, ebbero a provare sofferenze d’ogni genere. Venivano lapidati o feriti con tegole oppure battuti a morte con rami di leccio e di quercia nelle parti più delicate del corpo, specie in testa. Un gruppo dei fannulloni e perditempo abituali avevano accerchiato gli Ebrei sbattuti e rinserrati, come dicevo, entro un piccolo spazio nella parte estrema della città, e stavano seduti li a sorvegliarli, quasi fossero in stato d’assedio, perché nessuno riuscisse a fuggire senza essere visto. In effetti la mancanza del vitto necessario aveva fatto venire a parecchi di loro l’idea di una sortita: incuranti della sicurezza personale, cedevano alla paura di morire di fame con tutte le loro famiglie. Quegli sfaccendati stavano in agguato proprio per sorprendere i tentativi di evasione e se riuscivano a mettere le mani su qualcuno era la morte istantanea, provocata con le più indegne torture. Un’altra masnada stava appostata presso i porti fluviali, pronta a piombare sugli Ebrei che vi approdavano e sulla roba che portavano per i loro commerci. Prendevano d’assalto le navi e rapinavano il carico sotto gli occhi dei proprietari; a questi legavano poi le mani dietro la schiena e li bruciavano vivi, usando come materiale da ardere timori, barre, pertiche e impalcature di coperta. La più pietosa di tutte era la fine di quelli che venivano arsi vivi nel centro della città. Talvolta, per mancanza di legna, raccoglievano frasche, vi appiccavano il fuoco e le scagliavano sugli sventurati che nella maggior parte dei casi morivano semibruciati più per effetto del fumo che del fuoco, perché il materiale di frasche secche produce un fuoco debole e fumoso che si spegne subito, essendo troppo leggero per carbonizzarsi. Molti li legavano ancora vivi con cinghie e corde e, strette loro assieme le caviglie, li trascinavano attraverso la piazza e saltavano sui loro corpi senza smettere neppure quando erano ormai cadaveri. Più crudeli e più selvaggi delle belve feroci, laceravano le loro membra pezzo a pezzo e a furia di calpestarle ne distruggevano ogni forma, in modo che non rimanesse neanche un frammento cui poter dare sepoltura.

 

(Filone di Alessandria, Legatio ad Gaium)