Gadamer, Sull’oggetto storico

Il processo ermeneutico porta a constatare che l’oggetto storico è unità dell’“io conoscente” e del “diverso da me”. Comprendere è opera di mediazione. Questa è la via che ci è data alla verità. La quale dunque non viene negata dal filosofo tedesco in nome di un’assolutizzazione dell’interpretazione, che arriverebbe a cancellare la realtà stessa del fatto da interpretare cadendo cosí in un totale relativismo.

 

H. G. Gadamer, Il problema della conoscenza storica, trad. it. di G. Bartolomei, Guida, Napoli, 1969, pagg. 90-93

 

Non solo il concetto, ma anche l’espressione “oggetto storico” mi sembra inutilizzabile. Ciò che noi vogliamo designare con essa non è un “oggetto”, ma una unità del “mio” e dell’“altro”. Ricordo, ancora una volta, ciò su cui ho già ripetutamente insistito: ogni comprensione ermeneutica comincia e finisce con “la cosa stessa”. Ma, da un lato, bisogna guardarsi dal misconoscere il ruolo della “distanza temporale”, che sta fra il cominciare e il finire, e, dall’altro, bisogna guardarsi dal compiere una oggettivazione idealizzante della “cosa stessa”, come fa lo storicismo oggettivistico. La despazializzazione della “distanza temporale” e la deidealizzazione della “cosa in se stessa” ci conducono, allora, a comprendere come sia possibile conoscere nell’“oggetto storico” il veramente “altro” rispetto alle convinzioni e alle opinioni “mie”: cioè, come sia possibile conoscere entrambi. È dunque ben vera l’affermazione secondo cui l’oggetto storico, nel senso autentico del termine, non è un “oggetto”, ma l’“unità” dell’uno e dell’altro. Esso è il rapporto, cioè “l’affinità”, attraverso la quale si manifestano entrambi: la realtà storica, da una parte, la realtà della comprensione storica, dall’altra. Questa “unità” è la storicità originale in cui si manifestano, in maniera “affine”, la conoscenza e l’oggetto storico. Un oggetto che ci perviene attraverso la storia, non è soltanto un oggetto che si fissa da lontano, ma quel “centro” in cui appare l’essere effettivo della storia e l’essere effettivo della coscienza storica.

Dirò, dunque, che l’esigenza dell’ermeneutica di pensare la realtà storica propriamente detta ci viene da ciò che io chiamo il principio della produttività storica. Comprendere è operare una mediazione fra il presente e il passato, è sviluppare in se stessi tutta la serie continua delle prospettive attraverso cui il passato si presenta e si rivolge a noi. In questo senso radicale e universale, la presa di coscienza storica non è l’abbandono del compito eterno della filosofia, ma la via che ci è stata data per accedere alla verità sempre ricercata. E io vedo nel rapporto che ogni comprensione ha col linguaggio, la maniera in cui la coscienza della produttività storica si espande.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. II, pag. 442