Geymonat, Le ricerche matematiche di Leibniz

Ludovico Geymonat (1908-1991), che in Italia ha rappresentato uno dei punti di riferimento per lo studio della filosofia della scienza, si propone di illustrare nella maniera piú chiara e piú semplice possibile il significato e le caratteristiche del calcolo infinitesimale scoperto da Leibniz.

 

L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. II, cap. XIV, vii

 

La Dissertatio de arte combinatoria (1666) ci testimonia che fin da giovane Leibniz provò un vivo interesse per il calcolo combinatorio e giunse a impadronirsi piuttosto bene dei suoi princípi; nel 1676 otterrà la formula generale dei “coefficienti polinomiali” senza tuttavia pubblicarla (essa verrà riscoperta vent'anni piú tardi da Abraham de Moivre, cosicché suole oggi venire associata al suo nome). Questi studi giovanili costituiranno un'ottima base di partenza, allorché nel 1672 il nostro autore affronterà i piú delicati argomenti di analisi infinitesimale, e - su suggerimento di Huygens - leggerà con passione gli scritti di Pascal.

Nel contempo Leibniz si occupava anche di algebra, ove otterrà (nel 1693) alcuni interessanti risultati circa il problema della eliminazione di due incognite entro un sistema di tre equazioni di primo grado, facendo uso di simboli che precorrono i determinanti. A questo medesimo ambito di ricerche si collegano pure alcuni studi di Leibniz sul calcolo delle probabilità e il suo interesse per l'aritmetica (in particolare per la serie dei numeri primi).

Nel 1673 i contatti avuti con l'ambiente scientifico inglese che gravitava intorno alla Royal Society lo sollecitarono ad approfondire le indagini poco prima iniziate di analisi infinitesimale, affrontando in forma sistematica i due fondamentali problemi dell'epoca: quello delle tangenti e quello delle aree. Ne ricavò due tipi di calcolo, che verranno indicati con il nome, diventato classico, di “calcolo differenziale” e “calcolo integrale”. Il teorema di inversione, provando che essi sono l'inverso uno dell'altro, riuscirà a dare un carattere unitario alla complessa materia, che verrà cosí a profilarsi come un unico grande ramo della matematica moderna.

La svolta decisiva che Leibniz (e qualche anno prima di lui Newton) riuscí a imprimere alla disciplina in esame consistette soprattutto nella precisazione e uniformazione delle sue regole, resa possibile fra l'altro da simboli adeguati.

Alla ricerca di questi simboli il nostro autore fu senza dubbio sollecitato dalle idee che veniva elaborando, in sede di logica, sulla characteristica universalis; sappiamo comunque che Leibniz non li ideò tutto d'un tratto, ma solo attraverso vari tentativi (in ispecie per ciò che riguarda il simbolo di integrale). Che i simboli leibniziani si siano rivelati molto piú idonei alla nuova disciplina che non quelli newtoniani, è cosa notissima, confermata da tutto il successivo sviluppo dell'analisi; ciò che merita invece di venire sottolineato, è che Leibniz fu subito ben consapevole dei grandi vantaggi di una notazione sistematica, mentre Newton sembra averle attribuito poca importanza (quasi che avesse introdotto le proprie notazioni solo per comodità personale). Abbiamo poco fa ricordato che la prima fondamentale lettura di Leibniz su argomenti infinitesimali fu costituita dagli scritti di Pascal; ebbene fu proprio questa lettura a suggerirgli i simboli poi precisati e perfezionati. Una volta avuta l'idea di essi, egli cercò subito di tradurre nella nuova notazione i risultati raggiunti dal matematico francese: le semplificazioni cosí ottenute lo persuasero che la via intrapresa era giusta e che valeva la pena insistervi. In seguito ripeté il medesimo lavoro per altre opere, delle quali veniva via via a conoscenza; i sempre nuovi successi lo rassicurarono nella propria convinzione e fecero sorgere nel suo animo la piena consapevolezza della quale abbiamo or ora parlato.

Il simbolo di differenziale dx (oppure dj, dz ... secondo il nome della variabile) si presentò a Leibniz come estensione naturale dei simboli usati per le differenze finite; il calcolo di queste differenze era allora assai studiato dai matematici per la determinazione del decorso delle funzioni. Quella di Leibniz è una estensione dalle grandezze finite alle infinitesime, e rientra perfettamente nel quadro degli interessi del nostro autore (in particolare del suo interesse per le differenze, sia pur piccolissime, che devono sussistere fra due enti allorché questi sono veramente due).

Sappiamo che Pascal aveva attribuito molta importanza al “triangolo caratteristico” di una funzione; ebbene, immaginiamo che il punto Q si avvicini infinitamente a P: finché essi non vengono a costituire un unico punto, le loro ascisse e le loro ordinate dovranno risultare distinte l'una dall'altra, e la differenza fra le loro ascisse (o rispettivamente fra le ordinate) non sarà nulla. È precisamente a tali differenze, quando i punti tendono a coincidere, che il nostro autore dà il nome di “differenziali”; ed è operando in modo opportuno su di esse che egli si propone di giungere alla risoluzione dei problemi concernenti le tangenti, i massimi e i minimi, ecc. La condizione essenziale da lui imposta a tali operazioni è che i differenziali vengano confrontati fra loro, non con le grandezze finite; il “triangolo caratteristico” gli suggerisce la principale operazione del nuovo calcolo, cioè lo studio del rapporto fra i due differenziali corrispondenti ai due cateti del triangolo in questione. Cosí giunge al famoso dx/dy, che indica - come oggi ben sappiamo - la derivata della y rispetto alla x. Per giungere poi alle operazioni fondamentali della differenziazione della somma, del prodotto, del quozienti di due o piú variabili, il passo non era molto difficile, tenendo conto delle cognizioni già raggiunte dai matematici della generazione precedente; Leibniz seppe compierlo esattamente e tradurlo con perfetta maestria nel proprio simbolismo. Ne emerse - sia pur con le debite differenze - una sorprendente analogia con l'ordinario calcolo algebrico delle grandezze finite, e risultarono subito evidenti le notevolissime semplificazioni che la nuova “algebra” era in grado di arrecare a tutti i problemi affrontati. Il simbolismo leibniziano si rivelò anche adattissimo a esprimere i differenziali di ordine superiore, malgrado l'oscurità di questo concetto: celebre è la formula (scoperta nel 1695) che serve a calcolare il differenziale di n-simo ordine del prodotto di due fattori.

Il simbolo di integrale  fu ideato da Leibniz per indicare la somma di tutti gli indivisibili che riempiono un'area (esso ricorda appunto l'iniziale della parola “Somma”); in un primo tempo aveva provato a usare la notazione, che poi abbandonò, omn (abbreviazione del termine omnes, cioè “tutti” gli indivisibili). La scoperta delle proprietà dell'integrale fu abbastanza semplice. Piú difficile fu comprendere che, per indicare convenientemente l'integrale di una variabile y (la quale sia funzione della variabile indipendente x), è opportuno scrivere ydx anziché y. Una volta accortosi dei vantaggi che presenta l'introduzione del dx sotto il simbolo di integrale, Leibniz ne raccomanda l'uso e lo pratica egli stesso sistematicamente: “Raccomando di non omettere dx [...] errore frequentemente commesso e che impedisce di andare piú oltre”.

 

(L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano, 1970, vol. II, pagg. 614-616)