GENTILE, LA CRITICA E IL TRADURRE

 

La critica è gusto; ma non solo gusto. Giacché il gusto, ricondotto a quel punto della vita dello spirito in cui esso esercita la sua azione, ha la stessa inattualità dell'arte; laddove la critica è pensiero, e perciò filosofia, e perciò storia. La critica è quell'attualità del pensiero consapevole di sé, in cui si trova l'arte e si colloca al suo posto. Senza la critica, per giovane che essa sia ed inesperta, ci sarebbe un Dante, e non ce n'accorgeremmo; o si avvertirebbe e se ne prenderebbe nota a quel modo che nella memoria si nota che il tal giorno e nel tal luogo scoppiò un fulmine o tremò la terra. Che cosa sia Dante, che piglia posto nella storia col suo valore, ce lo dice appunto la critica. La quale, per dircelo, deve attraverso l'opera d'arte scoprire l'arte. Non si deve fermare a quel che l'opera materialmente ci dice. Esporre la Divina Commedia, nella sua favola e nella sua struttura, è parte della critica, non è la critica. Il contenuto materiale del poema non è il poema. Né sono il poema le parole in cui tal contenuto ci viene espresso. Le parole sono scritte lì, e stampate in un volume, che ognuno può leggere. Ma basterà leggerle così come si presentano ordinate una dopo l'altra, ma ciascuna formante una cellula a sé? Le parole vanno interpretate; dalle parole che sono molte, bisogna risalire all'anima che è una. E insomma, intenderle. Può darsi che il lettore del poema italiano non sia italiano. E allora per intenderne le parole, bisogna che prima le traduca. Tradurle? Ma è possibile tradurre un'opera d'arte? Né un'opera d'arte, né un'opera scientifica, quantunque quel che si perda nel secondo caso sia meno di quel che si perde nel primo. Perché le parole sono parole del sentimento, in quanto come ogni tecnica sono state fuse nel sentimento, e formano tutt'uno con esso, che è appunto l'elemento artistico dell'opera d'arte. Quindi sostituire una lingua ad un'altra è sostituire un sentimento a un altro sentimento, e prendere lo spunto da un'opera artistica per farne un'altra. Ma ancorché il lettore sia italiano e parli la stessa lingua del poeta, non si può dire che quella lingua sia proprio la stessa. Ogni scrittore ha la sua lingua, le sue parole, tutte sonanti del suo accento, animate dalla sua anima, e formanti così un corpo, in cui ogni organo è correlativo a tutti gli altri: ogni parola, cioè, ha un senso pel contesto, che è quel singolare, unico, discorso che è irripetibile. Tanto che lo studioso della lingua sente il bisogno di tanti vocabolari quanti sono gli scrittori, in cui una lingua si può studiare. E nello stesso scrittore, non si possono distinguere diversi periodi? E chi vada pel sottile, e proceda insomma con esattezza, può dire che le parole, come suonano ora sul suo labbro, abbiano lo stesso accento dell'anno scorso, o di ieri? Anche un lettore italiano, dunque, deve tradurre nella sua propria lingua (e nella sua lingua d'oggi!) il poema scritto in italiano, ma da un altro e sei secoli fa. Che più? Ognuno di noi ha bisogno di tradurre a se stesso quel che scrisse ieri. Non c'è caso, dunque, in cui quella perdita — se è perdita — di cui abbiano parlato, sia evitabile. Se il sentimento si può attingere soltanto attraverso le parole, le parole mutano di continuo; e non può quindi non mutare di conserva con esse il sentimento, in cui va ricercata l'opera d'arte, per ciò che essa ha di propriamente artistico. E in realtà, quel presunto oggetto della critica, a cui questa si dovrebbe adeguare, non esiste; come nessuna storia è concepibile che presupponga, tal quale, l'oggetto di cui deve darci la rappresentazione. La vita immortale delle cose belle è una vita che è pur sempre vita: non un fermarsi e stare definitivo; ma un muoversi continuo e un rinascere incessante a nuova vita nello spirito in cui vive e per cui vive. Ma il diritto del tradurre ha fondamenta anche più solide di quelle che gli derivano da questa sua universalità che lo rende inevitabile. Il tradurre per un verso è cambiare e muoversi nel diverso; ma per un altro è tornare, per chiudere il circolo, dal diverso all'identico. E la traduzione, per essere assolutamente esatti, non interviene post festum, ad espressione compiuta, quando il poeta ha recitato tutto il suo canto, e tace, e muore, e il suo canto è trasmesso altrui; ma nasce e si svolge nell'atto stesso della primitiva espressione, a mano a mano che il poeta procede nello svolgimento del suo tema, nella trattazione progressiva del suo motivo fondamentale. Dante non si ferma alla prima terzina, né al primo canto, né alla prima cantica. Tante tappe, e ciascuna superata, poiché il poeta procede. E in questo processo, ad ogni punto di esso tutto quel che già è stato espresso, incompiuto com'è, ha bisogno di essere compiuto; e perciò si sviluppa; e sviluppandosi si trasforma, integra e trasfigura: ogni parola già pronunziata si anima di nuova vita, svela un più profondo significato. Non è più quella, ecco, è una nuova parola. È stata tradotta in una diversa lingua. Chi non vede questo primo autotradursi della poesia e di ogni opera d'arte, nel processo della sua stessa creazione, non si renderà mai conto del carattere spirituale della creazione artistica. E chi veda ogni traduzione derivare da questo originario autotradursi, non può più sospettare nella traduzione, per quel che essa è, una perdita o diminuzione dell'opera d'arte, o la sostituzione di un'opera ad un'altra. Senza questa traduzione immanente ad ogni opera d'arte, e ad essa connaturata, non c'è opera d'arte attuale e viva; e il tutto dilegua in una vana presunzione d'un sentimento inesprimibile (assurdo logico, come ogni tesi senza antitesi, e senza sintesi!). Nel tradurre, se si traduce bene, l'opera d'arte, lungi dal perdere, acquista; anziché perdere se stessa, conquista se stessa. Perché la parola, nel suo svolgimento, non è la morte, sì la vita del sentimento, poiché la parola non è pura analisi, ma circola nella sintesi. Certo, v'ha l'opera d'arte fallita, in cui lo spirito si svia e disperde nell'analisi; ma la vera opera d'arte è quella che attraverso le molteplicità della parola (di ogni parola, di ogni pensiero, di ogni mezzo tecnico), ci dà l'unità del soggetto, e ci comunica il suo sentimento. Che si comunica, perché nel sentimento siamo tutti di un'anima sola; e quel che ci divide è il pensiero in quanto analisi astratta e non ancora superata. Ebbene, leggere e rileggere, tradurre e ritradurre, e ogni parola pesarla, vederla in sé e nel contesto, e ogni elemento scrutarlo per quel che è da solo e per quel che porta nell'insieme (metro, ritmo, personaggi, fatti storici, leggende e fantasmi e idee religiose e filosofiche e immagini della natura): interpretare insomma con tutti i sussidii a nostra disposizione, finché dalle sparse membra il corpo si ricomponga tutto, e si levi, e cammini, e viva della sua vita, e ci faccia sentire come tutto quel che è e fa, nasce da lì e si fonde lì, in quella vita: questo è intendere e scoprire il bello di un'opera d'arte: scoprire quel punto, da cui s'irradia tutta la luce che illumina, in ogni sua parte, la mole dell'opera d'arte, e la fa splendere in un'assoluta trasparenza. Questa è la critica.

 

(G. Gentile)