Habermas, Liberarsi dall'incanto del pensiero mitico

Jürgen Habermas rifiuta lo "scetticismo" nei confronti della ragione emerso dall'interpretazione dell'illuminismo di Horkheimer e Adorno: nel momento in cui la capacità critica della ragione si rivolge contro la ragione stessa, autonomizzandosi dai propri fondamenti, la ragione deve rinunciare anche alla critica. Questo atteggiamento - pur rivendicando il carattere dialettico dell'illuminismo - rappresenta in realtà, secondo Habermas, una forma di continuità dell'illuminismo non dialettico, di quello cioè che riconosce tutta intera la capacità della ragione di scoprire la verità: l'analisi di Horkheimer e Adorno si presenta infatti come l'"ultimo svelamento". Habermas sa bene comunque che è difficile recuperare interamente il ruolo della ragione teorizzato dall'illuminismo, soprattutto dopo che questo ha dimostrato il suo carattere "totalitario": e cosí Habermas propone "una razionalità a basso profilo" come scrive F. Volpi (La metafisica rimossa, in AA. VV., La metafisica, Laterza, Bari, 1997, pag. 172) "di tipo procedurale e non sostanziale, fallibilista e non fondazionista"; sostiene che si debba rinunciare, in nome di un "atteggiamento finitistico e probabilistico", "a credere che il sapere filosofico possa elevarsi all'altezza dell'Assoluto". La ragione, per Habermas, si esplica nella comunicazione; e per questo deve porre inevitabilmente alcune "premesse", che non possono avere il ruolo della "fondazione", ma che sono una "idealizzazione" del cui carattere provvisorio siamo pienamente consapevoli: la ragione comunicativa e argomentativa può proporsi di nuovo l'obiettivo di liberarci dal "pensiero mitico". Come d'Alembert, Habermas è convinto che la funzione liberatrice della ragione si realizza attraverso un processo - e un progresso - fatto di risultati provvisori. Per Habermas, però, contrariamente a quanto sostenevano gli illuministi del Settecento, accanto alla luce della ragione permane in parte anche quella del mito.

 

Nella tradizione dell'illuminismo il pensiero illuminista è stato inteso al tempo stesso come antitesi e come controforza rispetto al mito. Come antitesi, perché oppone al vincolo autoritativo di una tradizione legata alle sequela delle generazioni la libera costrizione dell'argomento migliore; come contro-forza, in quanto spezza il dominio di potenze collettive mediante acquisizioni intellettive individuali, trasposte in motivi. L'illuminismo contraddice il mito e si sottrae in tal modo al suo potere. A questo contrasto, di cui il pensiero illuminato è tanto certo, Horkheimer e Adorno oppongono la tesi di una complicità segreta. "Il mito è già illuminismo, e l'illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia" (Dialettica dell'illuminismo, Premessa). [...]

Abbiamo finora conosciuto la mentalità mitica solo sotto l'aspetto dell'atteggiamento ambivalente dei soggetti verso le potenze primordiali, quindi dal punto di vista dell'emancipazione, che è centrale per la formazione dell'identità. Horkheimer e Adorno concepiscono l'illuminismo come il fallito tentativo di svincolarsi dalle potenze del destino. Il vuoto desolato dell'emancipazione è la forma sotto la quale la maledizione delle forze mitiche ancora una volta cattura il fuggitivo. [...]

Ma il dramma dell'illuminismo giunge alla propria peripezia solo quando la stessa critica dell'ideologia viene sospettata di non produrre (piú) delle verità [...]. Il dubbio si estende allora anche alla ragione, i cui criteri la critica dell'ideologia ha trovato dati negli ideali borghesi e non ha fatto altro che prendere in parola. Questo passo lo compie la Dialettica dell'illuminismo: essa autonomizza la critica anche nei confronti dei propri fondamenti. [...]

Effettivamente la critica dell'ideologia, sotto un certo aspetto, ha anche continuato l'illuminismo non dialettico del pensiero ontologico. Essa rimane imprigionata nell'immagine purista, come se nei rapporti interni fra genesi e validità vi fosse il diavolo che bisogna scacciare affinché la teoria, purificata da ogni aggiunta empirica, potesse muoversi nel suo proprio elemento. Di questa eredità la critica divenuta totale non si è sbarazzata. Infatti, appunto nell'intenzione di un "ultimo svelamento", che con uno strappo deve far cadere il velo della confutazione di ragione e potere, si tradisce un proposito purista, analogo al proposito dell'ontologia, di dividere categorialmente, cioè di colpo, essere e apparenza. [...]

Nell'argomentazione si intersecano sempre critica e teoria, illuminismo e fondazione, anche se i partecipanti al discorso devono presupporre che sotto le inevitabili premesse comunicative del discorso argomentativo si riveli solo la libera costrizione dell'argomento migliore. Essi però sanno, o possono sapere, che anche questa idealizzazione è necessaria unicamente perché le convinzioni si formano e si affermano in un medium che non è "puro", che non è liberato, a guisa delle idee platoniche, dal mondo dei fenomeni. Solamente un discorso che lo riconosca è in grado di liberarsi ancora dall'incanto del pensiero mitico, senza perdere la luce dei potenziali semantici conservati anche nel mito.

 

(J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari, 19882, pagg. 110, 117, 119, 133-134)