Hegel, La coscienza infelice

La coscienza del servo può trovare espressione nello stoicismo: l'uomo è indipendente - e libero - al di là della propria condizione; può essere libero “sul trono e in catene” (Fenomenologia dello Spirito, par. 34). Lo stoicismo, ignorando l'oggettività della Natura e dimostrando indifferenza verso di essa, la lascia sussistere nella sua oggettività. Questa oggettività viene messa in discussione dallo scetticismo (ivi, parr. 37-41) il quale, rifiutando ogni certezza, si presenta come continua contraddizione; una contraddizione che - in assenza di punti di riferimento esterni (vengono infatti tutti costantemente negati) - si sviluppa e vive all'interno del soggetto. La coscienza di questa contraddizione è detta da Hegel coscienza infelice. L'infelicità nasce dalla consapevolezza della propria mutevolezza e dal desiderio di immutabile, che però è sentito come irraggiungibile.

 

G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Autocoscienza

 

Questa coscienza infelice in sé scissa è cosí costituita che, essendo tale contraddizione della sua essenza una coscienza, la sua prima coscienza deve sempre avere insieme anche l'altra; e in tal modo, mentre essa ritiene di aver conseguita la vittoria e la quiete, deve immediatamente venir cacciata da ciascuna delle due coscienze. Ma il suo vero ritorno in se stessa, o la sua conciliazione con sé, rappresenta il concetto dello spirito che, ormai vitale, è entrato nella sfera dell'esistenza: e ciò perché essa come coscienza indivisa è nel medesimo tempo coscienza duplicata; essa è l'intuirsi di un'autocoscienza in un'altra; essa stessa è l'una e l'altra autocoscienza, e l'unità di entrambe le è anche la sua essenza; ma essa per sé non è ancora questa essenza medesima, non è ancora l'unità di entrambe le autocoscienze.

La coscienza trasmutabile. Essendo essa da prima solo l'unità immediata di entrambe le coscienze, ma non essendo entrambe queste coscienze per lei lo stesso; per lei anzi essendo, quelle due coscienze opposte; l'una, quella semplice e intrasmutabile, le è l'essenza; mentre l'altra, quella che si trasmuta per molte guise, le è l'Inessenziale. Entrambe son per essa essenze reciprocamente estranee; essa stessa, essendo la coscienza di questa contraddizione, si pone dal lato della coscienza trasmutabile ed è a se stessa l'Inessenziale.

Ma come coscienza della permanenza, o dell'essenza semplice, deve procedere a liberarsi dall'Inessenziale, vale a dire a liberare sé da se stessa. Infatti, sebbene per sé sia soltanto coscienza trasmutabile, e sebbene la coscienza intrasmutabile le sia un estraneo, tuttavia essa stessa è coscienza semplice e quindi intrasmutabile; coscienza di cui essa è consapevole come di sua essenza; ma in tal guisa ch'essa, per sé, ancora una volta non è questa essenza. Perciò la posizione ch'essa dà a quelle due non può costituire una loro reciproca indifferenza, ossia una indifferenza di se stessa di fronte all'Intrasmutabile. Anzi essa stessa è immediatamente quelle due coscienze; e per lei è il rapporto di entrambe come rapporto dell'essenza alla non-essenza, cosí che la non-essenza debba venir tolta. Ma mentre le due coscienze le sono nello stesso tempo essenziali e contraddittorie, essa è soltanto il movimento contraddittorio, nel quale il contrario non giunge alla calma nel proprio contrario, anzi si riproduce in quello nuovamente come contrario.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XVIII, pagg. 517-518)