Heidegger, Sul nulla

Heidegger pone al centro della sua riflessione il problema del nulla e osserva che lo consideriamo sempre come un ente a causa delle intrinseche esigenze della logica. Ma il nulla “è piú originario del “non” e della “negazione””.

 

M. Heidegger, Vas ist Metaphysik [Che cos’è la metafisica], Bonn, 1929, trad. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, pagg. 62-64  428)

 

L'elaborazione della domanda relativa al niente deve portarci in quella situazione dalla quale è possibile scorgere la risposta oppure l'impossibilità della risposta. Il niente è ammesso, La scienza, con superiore indifferenza nei suoi confronti, lo abbandona come ciò che “non c'è”.

 Noi tuttavia tentiamo di interrogarci a proposito del niente. Che cos'è il niente? Già al primo contatto la domanda mostra qualcosa di insolito. Nel porcela, infatti, noi già all'inizio assumiamo il niente come qualcosa che “è” cosí e cosí, cioè lo trattiamo come un ente. Eppure il niente differisce proprio da esso in modo assoluto. Domandare del niente, chiedere che cos'è, e come è, significa tradurre l'oggetto della domanda nel suo contrario. La domanda si priva essa stessa del suo oggetto proprio.

Ne consegue che anche ogni risposta a questa domanda è per principio impossibile, perché inevitabilmente si articola nella forma secondo cui il niente “è” questo o quello. Rispetto al niente, domanda e risposta sono nello stesso modo un controsenso.

Cosí, per respingere la questione non è nemmeno necessario ricorrere alla scienza. La regola fondamentale del pensiero in generale, cui comunemente ci si richiama, ossia il principio di non contraddizione, la “logica” generale, sopprime la questione, perché il pensiero, che essenzialmente è sempre pensiero di qualcosa, qui come pensiero del niente, dovrebbe agire contro la sua propria essenza.

Poiché ci è impedito fare, in generale, del niente un oggetto, siamo già arrivati alla fine del nostro domandare del niente; ciò partendo dal presupposto che in tale domanda la “logica” sia l'istanza suprema, l'intelletto il mezzo e il pensiero la via per cogliere originariamente il niente e decidere del suo possibile svelamento.

Ma può la sovranità della “logica” essere lesa? Forse che l'intelletto non è realmente sovrano in questa domanda sul niente? Eppure è solo col suo aiuto che in generale noi possiamo determinare l'ente, e porlo come un problema, sia pure esso tale da consumare se stesso. Infatti, il niente è la negazione della totalità dell’ente, il puro e semplice non-ente. Ma cosí sussumiamo il niente nella determinazione superiore del negativo e quindi, cosí sembra, di ciò che è negato. Ma, secondo l'insegnamento sovrano e mai intaccato della “logica”, la negazione è una specifica operazione dell'intelletto. Come possiamo dunque, nel porci il problema del niente, anzi nell'interrogarci circa la possibilità stessa di questo problema, volere congedare l'intelletto? E d'altra parte è proprio cosí sicuro ciò che qui noi presupponiamo? Il “non”, la negatività e quindi la negazione rappresentano davvero la determinazione superiore sotto la quale cade il niente come modo particolare del negato? C'è il niente solo perché c'è il “non”, cioè la negazione? Oppure è vero il contrario, ossia che c'è la negazione e il “non” solo perché c'è il niente? Questo non è ancora stato deciso, anzi, non è mai stata neppure sollevata esplicitamente la questione. Da parte nostra affermiamo che il niente è piú originario del “non” della negazione.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. II, pagg. 279-280