Hobbes, I privilegi dell'uomo

Non soltanto per il privilegio della ragione (che attraverso un procedimento basato sulla costruzione di un linguaggio chiaro e sul principio di causalità genera la scienza) “l'uomo eccelle su tutti gli altri animali”: egli si distingue “fra tutti gli esseri viventi” anche per il “privilegio dell'assurdità” (cui, secondo Hobbes, sono maggiormente soggetti “coloro che professano la filosofia”, privi di un giusto metodo di indagine).

 

Th. Hobbes, Leviatano, I, cap. V

 

Io ho detto piú su, che l'uomo eccelle su tutti gli altri animali per questa facoltà, che quando egli concepisce una cosa qualsiasi è in grado di indagare le conseguenze di essa, e quali effetti egli può ricavarne. E ora aggiungo questo altro grado di tale eccellenza, e cioè che egli può per mezzo delle parole ridurre le conseguenze che egli trova a regole generali, chiamate teoremi, o aforismi; che egli può ragionare, o calcolare, non solo nel campo dei numeri, ma in qualsiasi altro campo, dovunque sia possibile aggiungere una cosa ad un'altra o sottrarre una cosa da un'altra.

[...]

Ma questo privilegio è attenuato da un altro, e cioè dal privilegio dell'assurdità, alla quale, fra tutti gli esseri viventi, solo l'uomo è soggetto. E, fra gli uomini, quelli che maggiormente sono soggetti ad essa sono coloro che professano la filosofia. Perciò è verissimo ciò che Cicerone dice in qualche luogo: che non c'è niente di tanto assurdo che non si possa trovare nei libri dei filosofi. E la ragione è manifesta, e sta nel fatto che nessuno di loro comincia i suoi ragionamenti muovendo dalle definizioni, cioè dalla spiegazione dei nomi che essi usano; il quale metodo viene usato soltanto nella geometria, e per questo le sue conclusioni sono diventate indiscutibili.

La prima causa delle conclusioni assurde è a mio giudizio la mancanza di metodo; nel fatto che essi non cominciano i loro ragionamenti con le definizioni, e cioè stabilendo i significati delle parole: che è come fare un calcolo senza conoscere il valore dei numerali, uno, due, tre. E poiché tutti i corpi che entrano nei nostri ragionamenti sono considerati sotto vari aspetti che io ho menzionati nel capitolo precedente, questi vari aspetti essendo definiti in modi diversi molte assurdità derivano dalla confusione e dalla insufficiente connessione dei loro nomi nelle affermazioni. E perciò:

la seconda causa delle assurdità delle affermazioni sta a mio giudizio nel dare agli accidenti i nomi dei corpi o ai corpi i nomi degli accidenti, come fanno coloro i quali dicono: la fede è infusa, o ispirata, quando invece niente si può versare o ispirare in qualche cosa che non sia un corpo; oppure che l'estensione è corpo, che il suono è nell'aria, ecc;

la terza causa consiste a mio giudizio nel dare agli accidenti del nostro corpo i nomi degli accidenti dei corpi che stanno fuori di noi, come fanno quelli i quali dicono che il colore è nel corpo, il suono è nell'aria, ecc;

la quarta consiste a mio giudizio nel dare nomi di corpi ai termini, cioè alle parole, come fanno quelli che dicono che esistono delle cose universali, che una creatura vivente è un genere, o una cosa generale, ecc;

la quinta nel dare i nomi degli accidenti ai termini, cioè alle parole, come fanno quelli che dicono la natura di una cosa è la sua definizione, l'ordine di un uomo è la sua volontà, e simili cose;

la sesta nell'uso di metafore, tropi e altre figure retoriche invece delle espressioni proprie. Infatti sebbene sia legittimo l'uso di dire, per esempio, nel parlare comune, la strada va, o conduce qui o là, il proverbio dice questo o quello (mentre invece la strada non può andare, né il proverbio può parlare), tuttavia nel ragionare o nell'indagare sulla verità tali forme di espressione non sono ammissibili;

la settima è dovuta ai termini che non significano niente, ma che vengono adottati nelle scuole e appresi per un'abitudine meccanica, come ipostatico, o transustanziato, consustanziato, eterno presente, e simili termini convenzionali degli scolastici.

Colui che può evitare queste cose non è facile che cada in qualche assurdità tranne che ciò non avvenga a causa della lunghezza del ragionamento nel quale egli può per caso dimenticare il punto di partenza. Poiché gli uomini per natura ragionano allo stesso modo, e bene, quando si basano su princípi esatti. Infatti chi è cosí sciocco da sbagliare in geometria e persistere inoltre nell'errore quando un altro gli abbia svelato questo suo errore?

Da ciò appare chiaro che la ragione non è una facoltà nata con noi come lo sono il senso e la memoria, e nemmeno ricavata dall'esperienza, come la prudenza, ma qualche cosa che si ottiene attraverso un'operosa attività consistente in primo luogo nel sapere imporre dei nomi adeguati alle cose, secondariamente nel seguire un metodo esatto e ordinato col quale procedere dagli elementi che sono i nomi alle affermazioni ottenute collegando i nomi gli uni con gli altri, e cosí ai sillogismi che costituiscono le connessioni fra le asserzioni, finché giungiamo alla conoscenza di tutte le conseguenze dei nomi appartenenti all'argomento del quale si tratta; ed è questo ciò che gli uomini chiamano scienza. E mentre il senso e la memoria non sono che conoscenza del fatto, che è una cosa passata e irrevocabile, la scienza è conoscenza delle conseguenze e della dipendenza di un fatto da un altro, per cui, oltre a quello che noi possiamo fare presentemente, noi sappiamo come possiamo fare qualche altra cosa quando noi vogliamo, o una cosa simile in un altro momento; poiché quando noi vediamo come ogni cosa si produce, per quali cause e in quale maniera, quando le stesse cause vengono in nostro potere noi vediamo come fare perché esse producano gli stessi effetti.

[...]

Per concludere, la luce della mente umana sta nelle parole chiare, già individuate in base a delle esatte definizioni e liberate da ogni ambiguità; la ragione è la misura, lo sviluppo della scienza la via, e il benessere dell'umanità lo scopo. E, al contrario, le metafore e le parole ambigue e prive di significato sono come fuochi fatui, e il ragionare su di esse è un errare fra innumerevoli assurdità, e la loro conclusione discussioni e sedizioni, o disprezzo.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 444-447)