Hobbes, L'uomo non è un animale politico

Le formiche e le api sono giustamente considerate da Aristotele “animali politici”, l'errore è quello di considerare “animale politico” anche l'uomo. Confrontando i comportamenti degli animali che vivono “in società” con quelli degli uomini, Hobbes rafforza la sua convinzione: l'uomo è un essere asociale.

 

Th. Hobbes, Leviatano, II, cap. XVII

 

È vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono in società fra loro, e per questo sono da Aristotele annoverate fra le creature politiche, e tuttavia non hanno altra guida che quella del loro particolare giudizio o desiderio, non hanno la parola con la quale ognuna di esse possa indicare a un'altra ciò che ritiene di utilità comune per loro; di conseguenza qualcuno forse desidererà sapere perché l'umanità non possa fare allo stesso modo. Al che io rispondo:

in primo luogo gli uomini sono in continua competizione per l'onore e la dignità, cose che quelle creature non conoscono nemmeno, e di conseguenza fra loro sorgono per questa ragione invidia e odio e infine guerre: fra quelle creature invece niente di tutto questo;

in secondo luogo fra quelle creature il bene comune non differisce da quello privato, per cui essendo esse per natura spinte a cercare il loro bene privato procurano per ciò stesso il bene di tutti. Ma l'uomo la cui gioia consiste nel confrontarsi con gli altri uomini, non può apprezzare se non ciò che lo distingue dagli altri;

in terzo luogo queste creature non avendo come gli uomini l'uso della ragione non vedono e non pensano di trovare errori nell'amministrazione delle loro faccende comuni; fra gli uomini invece ce ne sono alcuni che si ritengono piú saggi, piú abili a governare le cose pubbliche, in confronto con gli altri, e allora cercano di riformare e di innovare, ora in un modo, ora in un altro, e cosí producono confusione e guerra civile;

in quarto luogo queste creature sebbene abbiano un certo uso della voce in modo da riuscire a comunicarsi reciprocamente i loro desideri e le loro affezioni, tuttavia mancano dell'arte della parola, con la quale alcuni uomini rappresentano agli altri ciò che è bene sotto l'apparenza del male e ciò che è male sotto l'apparenza del bene, e aumentano o riducono l'apparente grandezza del bene e del male, provocando scontento fra gli uomini e turbando la loro pace e la loro gioia;

in quinto luogo le creature irragionevoli non fanno distinzione fra ingiuria e danno, e di conseguenza quando stanno a loro agio non si sentono mai offese dalle creature loro compagne; invece l'uomo è piú turbolento quando sta piú a suo agio, perché è proprio allora che egli ama di fare sfoggio della sua saggezza, e di controllare le azioni di coloro che governano lo stato;

infine l'accordo che si produce fra quelle creature è naturale mentre quello degli uomini è solo per convenzione, cioè artificiale; per questo non fa meraviglia che qui si richieda qualche altra cosa, oltre al patto convenuto, per rendere l'accordo costante e duraturo, cioè un comune potere capace di tenere gli uomini in soggezione e di dirigere le loro azioni verso il bene comune.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pag. 459)