Horkheimer_Adorno, Critica all’illuminismo

Horkheimer e Adorno accusano l’illuminismo di essere totalitario, perché identifica il pensiero con la matematica, considera che il progresso sia qualcosa di deciso in anticipo, rinuncia alla teoresi in nome della prassi.

 

M. Horkheimer- Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo

 

Poiché l’illuminismo è totalitario piú di qualunque sistema. Non in ciò che gli hanno sempre rimproverato i suoi nemici romantici – metodo analitico, riduzione agli elementi, riflessione dissolvente – è la sua falsità, ma in ciò che per esso il processo è deciso in anticipo. Quando, nell’operare matematico, l’ignoto diventa l’incognita di un’equazione, è già bollato come arcinoto prima ancora che ne venga determinato il valore.

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Ciò che appare un trionfo della razionalità soggettiva, la sottomissione di tutto ciò che è al formalismo logico, è pagato con la docile sottomissione della ragione a ciò che è dato senz’altro. Comprendere il dato come tale, non limitarsi a leggere, nei dati, le loro astratte relazioni spaziotemporali, per cui si possono prendere e maneggiare, ma intenderli invece come la superficie, come momenti mediati del concetto, che si adempiono solo nell’esplicazione del loro significato sociale, storico e umano – ogni pretesa della conoscenza viene abbandonata. Poiché essa non consiste solo nella percezione, nella classificazione e nel calcolo, ma proprio nella negazione determinante di ciò che è via via immediato. Mentre il formalismo matematico, che ha per mezzo il numero, la forma piú astratta dell’immediato, fissa il pensiero alla pura immediatezza. Si dà ragione a ciò che è di fatto, la conoscenza si limita alla sua ripetizione, il pensiero si riduce a tautologia. Quanto piú l’apparato teorico si asservisce tutto ciò che è, e tanto piú ciecamente si limita a riprodurlo. Cosí l’illuminismo ricade nella mitologia da cui non ha mai saputo liberarsi. Poiché la mitologia aveva riprodotto come verità, nelle sue configurazioni, l’essenza dell’esistente (ciclo, destino, dominio del mondo), e abdicato alla speranza. Nella pregnanza dell’immagine mitica, come nella chiarezza della formula scientifica, è confermata l’eternità di ciò che è di fatto, e la bruta realtà è proclamata il significato che essa occlude. Il mondo come gigantesco giudizio analitico, il solo rimasto di tutti i sogni della scienza, è dello stesso stampo del mito cosmico, che associava al ratto di Persefone la vicenda della primavera e dell’autunno. L’unicità dell’evento mitico, che dovrebbe legittimare quello di fatto, è un inganno. In origine il ratto della dea faceva immediatamente tutt’uno col morire della natura. Esso si ripeteva ad ogni autunno, e anche la ripetizione non era una serie di eventi separati, ma ogni volta lo stesso. Consolidandosi la coscienza del tempo, l’evento fu relegato nel passato come unico, e si cercò di placare ritualmente – mediante il ricorso a ciò che era accaduto da lunghissima pezza – l’orrore della morte ad ogni ciclo stagionale. Ma la separazione è impotente. Una volta posto quel passato unico, il ciclo assume il carattere dell’inevitabile, e l’orrore promana dall’antico sull’intero accadere come sulla sua ripetizione pura e semplice. La sussunzione di ciò che è di fatto, vuoi sotto la preistoria favolosa, vuoi sotto il formalismo matematico, la relazione simbolica dell’attuale all’evento mitico nel rito o alla categoria astratta nella scienza, fa apparire il nuovo come predeterminato, che è cosí – in realtà – il vecchio. Senza speranza non è la realtà, ma il sapere che – nel simbolo fantastico o matematico – si appropria la realtà come schema e cosí la perpetua.

Nel mondo illuminato la mitologia è penetrata e trapassata nel profano. La realtà completamente epurata dai demoni e dai loro ultimi rampolli concettuali, assume, nella sua naturalezza tirata a lucido, il carattere numinoso che la preistoria assegnava ai demoni. Sotto l’etichetta dei fatti bruti l’ingiustizia sociale da cui essi nascono è consacrata, oggi, non meno sicuramente, come qualcosa di immutabile in eterno, quanto era sacrosanto e intoccabile lo stregone sotto la protezione dei suoi dèi. L’estraniazione degli uomini dagli oggetti dominati non è il solo prezzo pagato per il dominio: con la reificazione dello spirito sono stati stregati anche i rapporti interni fra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso. Il singolo si riduce a un nodo o crocevia di reazioni e comportamenti convenzionali che si attendono praticamente da lui. L’animismo aveva vivificato le cose; l’industrialismo reifica le anime. L’apparato economico dota automaticamente, prima ancora della pianificazione totale, le merci dei valori che decidono del comportamento degli uomini. Attraverso le innumerevoli agenzie della produzione di massa e della sua cultura, i modi obbligati di condotta sono inculcati al singolo come i soli naturali, decorosi e ragionevoli. Egli si determina piú solo come una cosa, come elemento statistico, come success or failure. Il suo criterio è l’autoconservazione, l’adeguazione riuscita o no all’oggettività della sua funzione e ai moduli che le sono fissati. Tutto il resto, idea o criminalità, apprende la forza del collettivo, che fa buona guardia dalla scuola al sindacato. Ma anche il collettivo minaccioso è solo una superficie fallace dietro cui si nascondono i poteri che ne manipolano la violenza. La sua brutalità, che tiene il singolo a posto, rappresenta altrettanto poco la vera qualità degli uomini come il valore quella degli oggetti di consumo. L’aspetto satanicamente deformato che le cose e gli uomini hanno assunto alla luce chiara della conoscenza spregiudicata, rinvia al dominio, al principio che operò già la specificazione del mana negli spiriti e nelle divinità e che invischiava lo sguardo nei miraggi degli stregoni.

 

M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1974, pagg. 33-37