Horkheimer_Adorno, Il canto delle sirene

Nel 1944 Horkheimer e Adorno hanno ultimato la stesura di Dialettica dell'illuminismo negli Stati Uniti; tre anni dopo lo hanno pubblicato in Germania. Essi sostengono che l'illuminismo, come “pensiero in continuo progresso” che “ha perseguito da sempre l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”, è sostanzialmente fallito: l'illuminismo ha portato la luce, “ma la Terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura”. Le cause del fallimento sono da ricercare nella mancata autocomprensione dell'illuminismo, nel non avere riconosciuto che il superamento della mentalità mitica può avvenire solo accettandola all'interno della riflessione razionale: come Ulisse che non evita l'isola delle Sirene, accetta di ascoltarne il canto, ma trova al tempo stesso con l'astuzia (la ragione) il modo di neutralizzarne gli effetti negativi. Per il non riconoscimento della presenza del mito al suo interno, l'illuminismo si trasforma esso stesso in mito (il mito della razionalità come “necessità”, “matematica”, “macchina”, “organizzazione”) e da strumento di liberazione si fa “esercizio di autoconservazione”.

 

Come la storia delle Sirene adombra il nesso inestricabile di mito e lavoro razionale, cosí l'Odissea, nel suo complesso, testimonia della dialettica dell'illuminismo. Il poema si dimostra, specie nel suo strato piú arcaico, legato al mito: le avventure derivano dalla tradizione popolare. Ma lo spirito omerico, che si impadronisce dei miti e li “organizza”, entra in contraddizione con essi. La comune equiparazione di épos e mito, già dissolta dalla filologia classica piú recente, si rivela piú che mai fallace alla critica filosofica. I due concetti si separano, per segnare due fasi di un processo storico ancora riconoscibile nelle “cuciture” della stessa redazione omerica. La poesia omerica conferisce universalità alla lingua, se già non la presuppone; dissolve l'ordine gerarchico della società con la forma essoterica della rappresentazione anche e proprio quando lo esalta; cantare l'ira di Achille e le peripezie di Ulisse è una già una stilizzazione nostalgica di ciò che non si può piú cantare, e il soggetto delle avventure si rivela il prototipo dello stesso individuo borghese il cui concetto ha origine in quella compatta affermazione di sé di cui l'eroe pellegrino fornisce il modello preistorico. [...]

Nelle stratificazioni omeriche si sono depositati i miti; ma il loro resoconto, l'unità imposta alle leggende diffuse, è anche la descrizione dell'orbita onde il soggetto si sottrae alle potenze mitiche. Ciò vale, in un senso profondo, già per l'Iliade. L'ira del mitico figlio di una dèa contro il piú razionale condottiero e organizzatore dell'esercito, l'ozio indisciplinato dell'eroe, che infine - vincitore già votato alla morte - si lascia acquisire dalla necessità nazionale ellenica (non piú da tempo quella di una stirpe), attraverso la fedeltà mitica all'amico defunto, forma l'intreccio di storia e preistoria. Ciò vale a maggior ragione per l'Odissea quanto piú essa è vicina alla forma del romanzo di avventure. Nella contrapposizione dell'unico Io superstite [Ulisse] al destino dai molti aspetti si esprime quella dell'illuminismo al mito. Il lungo errare da Troia ad Itaca è l'itinerario del soggetto - infinitamente debole dal punto di vista fisico rispetto alle forze della natura, e che è solo in atto di formarsi come autocoscienza -, l'itinerario del Sé attraverso i miti. Il mondo mitico è secolarizzato nello spazio che egli percorre, i vecchi dèmoni popolano i margini estremi e le isole del Mediterraneo civilizzato, ricacciati nelle rocce e nelle caverne da cui uscirono un giorno nel brivido dei primordi. Ma le avventure danno a ciascun luogo il suo nome; e il loro risultato è il controllo razionale dello spazio. Il naufrago tremebondo anticipa il lavoro della bussola. La sua impotenza, a cui nessun posto del mare è piú ignoto, tende insieme a destituire le potenze. Cosí la semplice falsità dei miti (il fatto che terra e mare in realtà non sono abitati da dèmoni), la fantasmagoria diffusa della religione popolare tramandata, diventa, agli occhi dell'eroe maturo, “errore”, peripezia, rispetto alla chiara univocità del fine della propria conservazione, del ritorno alla patria e alla proprietà stabile. Le avventure sostenute da Ulisse sono tutte pericolose lusinghe che tendono a sviare il Sé dall'orbita della sua logica. Egli si abbandona sempre di nuovo ad esse, provando e riprovando, incorreggibile nella sua voglia di imparare, e a volte perfino stoltamente curioso, come un mimo che non si stanca mai di provare le sue parti. “Ma dove c'è pericolo, salute / anche matura” (F. Hölderlin, Patmos): il sapere, in cui consiste la sua identità e che gli permette di sopravvivere, è sostanziato dall'esperienza del molteplice, diversivo e dissolvente, e colui che sapendo sopravvive è anche quegli che si affida piú temerariamente alla minaccia mortale che lo indurisce e rafforza per la vita. [...]

Nel mito ogni momento del cielo ripaga quello che lo precede e collabora cosí a insediare come legge il nesso della colpa. A ciò si oppone Ulisse. Il Sé rappresenta l'universalità razionale contro l'ineluttabilità del destino. Ma trovando egli l'universale e l'ineluttabile già strettamente intrecciati fra loro, la sua razionalità assume necessariamente forma restrittiva: quella, cioè, dell'eccezione. Egli deve sottrarsi ai rapporti giuridici che lo circondano e lo minacciano da ogni parte, e che sono inscritti, per cosí dire, in ogni figura mitica. Egli soddisfa alla norma giuridica in modo che essa perda il suo potere su di lui nell'atto stesso in cui egli glielo riconosce. é impossibile udire le Sirene e non cadere in loro balía: esse non si possono sfidare impunemente. Sfida e accecamento sono la stessa cosa, e chi le sfida è già vittima del mito a cui si espone. Ma l'astuzia è la sfida divenuta razionale. Ulisse non tenta di seguire un'altra via da quella che passa davanti all'isola delle Sirene. E non tenta neppure di fare assegnamento sul suo sapere superiore, e di porgere libero ascolto alle maliarde, nell'illusione che gli basti come scudo la sua libertà. Egli si fa piccolo piccolo, la sua nave segue il suo corso fatale e prestabilito, ed egli comprende che, per quanto possa distanziarsi consapevolmente dalla natura, le rimane, come ascoltatore, asservito. Egli osserva il patto della sua dipendenza, e si divincola ancora, dall'albero della nave, per gettarsi nella braccia di quelle creature di perdizione. Ma egli ha scoperto una lacuna nel contratto, attraverso la quale, mentre adempie al decreto, nello stesso tempo gli sfugge. Nel patto originario non è previsto se chi passa ascolterà legato o non legato il canto. L'uso di legare appartiene solo a uno stadio dove il prigioniero non è piú ucciso immediatamente. Proprio in quanto - tecnicamente illuminato - si fa legare, Ulisse riconosce la strapotenza arcaica del canto. Egli si china al canto del piacere, e lo sventa, cosí come la morte. L'ascoltatore legato è attirato dalle Sirene come nessun altro. Solo ha disposto le cose in modo che, pur caduto, non cada in loro potere. Con tutta la violenza del suo desiderio, che riflette quella delle creature semidivine, egli non può raggiungerle, poiché i compagni che remano, con la cera nelle orecchie, non sono sordi solo alle Sirene, ma anche al grido disperato del loro capitano. Le Sirene hanno quel che loro spetta, ma già ridotto e neutralizzato - nella preistoria borghese - al rimpianto di chi prosegue. L'épos non dice che cosa accade alle cantatrici dopo che la nave di Ulisse è scomparsa. Ma nella tragedia sarebbe stata certo la loro ultima ora, come per la Sfinge quando Edipo risolve l'indovinello, eseguendo il suo ordine e cosí rovesciandola. Poiché il diritto delle figure mitiche, che è il diritto del piú forte, vive solo dell'ineseguibilità delle loro norme. Se esse vengono soddisfatte, i miti si dissolvono fino alla piú lontana posterità. [...]

 

Ogni progresso della civiltà ha rinnovato, con il dominio, anche la prospettiva di placarlo [il dominio]. Ma mentre la storia reale è intessuta di sofferenze reali, che non diminuiscono affatto in proporzione all'aumento dei mezzi per abolirle, la prospettiva, per realizzarsi, può contare soltanto sul concetto. Poiché esso non si limita a distanziare, come scienza, gli uomini dalla natura, ma come presa di coscienza di quello stesso pensiero che - nella forma della scienza - rimane legato alla cieca tendenza economica, permette di misurare la distanza che eterna l'ingiustizia. Mercè questa anamnesi della natura nel soggetto, nel compimento della quale è la verità misconosciuta di ogni cultura, l'illuminismo è, in linea di principio, opposto al dominio, e l'invito a fermare l'illuminismo echeggiò [...] meno per timore della scienza esatta che in odio al pensiero indisciplinato che si libera dall'incantesimo della natura, in quanto si riconosce come il suo stesso tremare davanti a se stesso. [...] L'illuminismo borghese si era arreso al suo momento positivistico molto tempo prima di d'Alembert. Esso fu sempre esposto alla tentazione di scambiare la libertà con l'esercizio dell'autoconservazione. La sospensione del concetto, che avesse luogo in nome del progresso o in quello della cultura, che si erano già segretamente accordati da tempo contro la verità, ha lasciato libero il campo alla menzogna. Che - in un mondo che si limitava a verificare protocolli e a custodire l'idea, degradata a “contributo” di grandi pensatori, come una sorta di slogan invecchiato - non si lasciava piú distinguere dalla verità neutralizzata a “patrimonio culturale”.

Ma riconoscere il dominio, fin addentro al pensiero, come natura inconciliata, potrebbe smuovere quella necessità, di cui lo stesso socialismo ha ammesso troppo presto l'eternità in omaggio al common sense reazionario. Elevando la necessità a “base” per tutti i tempi avvenire, e degradando lo spirito - alla maniera idealistica - a vetta suprema, esso ha conservato troppo rigidamente l'eredità della filosofia borghese. Cosí il rapporto della necessità al regno della libertà resterebbe puramente quantitativo, meccanico, e la natura, posta come affatto estranea, come nella prima mitologia, diventerebbe totalitaria e finirebbe per assorbire la libertà insieme con il socialismo. Rinunciando al pensiero, che si vendica, nella sua forma reificata - come matematica, macchina, organizzazione - dell'uomo immemore di esso, l'illuminismo ha rinunciato alla sua stessa realizzazione.

 

(M. Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino, 1980, pagg. 51; 54-55; 65-67; 47-48)