HOBBES, DELLA DIFFERENZA DEI COSTUMI

 

Per costumi non voglio dire qui la decenza del comportamento, come il modo con cui uno dovrebbe salutare un altro, o lavarsi la bocca, o stuzzicarsi i denti in compagnia, ed altri simili punti di piccola morale, ma quelle qualità dell'umanità, che riguardano il vivere insieme in pace ed unità. A tal fine dobbiamo considerare che la felicità di questa vita non consiste nel riposo di una mente soddisfatta. (...) La felicità è un continuo progredire del desiderio da un oggetto ad un altro, non essendo il conseguimento del primo che la via verso quello che vien dopo. La causa di ciò è che l'oggetto del desiderio di un uomo non è quello di gioire una volta sola e per un istante di tempo, ma quello di assicurarsi per sempre la via per il proprio desiderio futuro. (...)

 

Cosicché pongo in primo luogo, come una inclinazione generale di tutta l'umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l'altro che cessa solo nella morte. La causa di questo non è sempre il fatto che un uomo spera in un diletto più intenso di quello che ha già conseguito, o che non può essere contento di un potere moderato, ma è perché non può assicurarsi il potere e i mezzi per viver bene, che ha al presente, senza acquisirne di maggiori. (...)

 

La competizione per le ricchezze, l'onore, il comando o per gli altri poteri, inclina alla contesa, all'inimicizia e alla guerra, perché la via che porta un competitore al conseguimento del proprio desiderio è quella di uccidere, sottomettere, soppiantare o respingere l'altro. In modo particolare, la competizione per la lode inclina ad una riverenza per l'antichità, poiché gli uomini contendono con i vivi, non con i morti, e ascrivono a questi più di quanto sia loro dovuto, per poter oscurare la gloria dell'altro.

 

Il desiderio di agi e di diletto sensuale, dispone gli uomini ad obbedire ad un potere comune, perché a causa di tali desideri, si abbandona quella protezione che si poteva sperare dalla propria industria e dalla propria fatica. Il timore di morte e di ferite dispone alla stessa cosa, e per la stessa ragione. Al contrario, gli uomini bisognosi e arditi, non paghi della loro attuale condizione, come anche tutti gli uomini che sono ambiziosi di comando militare, sono inclini a continuare le cause della guerra, e a suscitare turbamenti e sedizioni, poiché non c'è onore militare se non con la guerra, né c'è tanta speranza di migliorare un cattivo gioco, come col causare una nuova scozzata. Il desiderio di conoscenza e delle arti pacifiche inclina gli uomini ad obbedire ad un potere comune, poiché tale desiderio contiene un desiderio di ozio, e, conseguentemente, di protezione da parte di qualche potere altro dal proprio.

 

Il desiderio di lode dispone ad azioni lodevoli che piacciano a quelli di cui valutiamo il giudizio, poiché di quegli uomini che disprezziamo noi disprezziamo anche le lodi. Il desiderio di fama dopo la morte fa la stessa cosa. (...)

 

I vanagloriosi che, senza essere consci di possedere grande capacità, si dilettano di credersi dei prodi sono inclini solo all'ostentazione, ma non a tentare, perché, quando appare il pericolo o la difficoltà, non cercano altro che sia scoperta la loro incapacità.

 

I vanagloriosi, i quali stimano la loro capacità dall'adulazione degli altri, o dalla fortuna di qualche precedente azione, senza che la vera conoscenza di se stessi dia un sicuro fondamento alla speranza, sono inclini ad impegnarsi in modo sconsiderato, e a ritirarsi, se possono, all'avvicinarsi del pericolo o della difficoltà, perché, non vedendo via di salvezza, preferiscono azzardare il loro onore, il quale con una scusa, si può salvare, piuttosto che la loro vita, per la quale nessuna salvezza è sufficiente. (...).

 

L'eloquenza con l'adulazione, dispone, gli uomini a confidare in coloro che l' hanno, perché la prima è sembianza di saggezza, la seconda una sembianza di affezione. Aggiungete ad esse la reputazione militare e gli uomini sono disposti ad aderire e ad assoggettarsi a coloro che le hanno, dato che le prime due hanno dato loro una garanzia contro il pericolo da parte di chi le ha, la terza dà loro una garanzia contro il pericolo da parte di altri.

 

La mancanza di scienza, cioè, l'ignoranza delle cause, dispone, o piuttosto costringe un uomo a contare sull'avviso e sull'autorità degli altri. Infatti tutti gli uomini a cui interessa la verità, se non contano su loro stessi, devono contare sull'opinione di qualche altro, che pensano sia più saggio di loro e che non vedono perché dovrebbe ingannarli.

 

L'ignoranza del significato delle parole, cioè la mancanza di intendimento, dispone gli uomini a prendere sulla fiducia non solo il vero che non conoscono, ma anche gli errori, e, quel che è più, i nonsensi di quelli in cui hanno fiducia, poiché non si può scoprire né l'errore né il nonsenso senza un perfetto intendimento delle parole. (...)

 

Quelli che compiono scarse o nessuna ricerca nelle cause naturali delle cose, per il timore che procede dall'ignoranza stessa di cos'è che ha il potere di far loro molto bene o danno, sono tuttavia inclini a supporre e a fingersi diverse specie di poteri invisibili, ad aver un timore riverenziale delle proprie immaginazioni, ad invocarle in un momento di sventura, come pure a ringraziarle nel momento di un atteso buon successo, facendo delle creature della loro fantasia, i loro dei. In questo modo è accaduto che gli uomini, per la varietà innumerabile della fantasia, hanno creato nel mondo innumerevoli specie di dei. Questo timore delle cose invisibili è il seme naturale di quel che ognuno chiama religione in se stesso, e superstizione in quelli che rendono un culto o temono quel potere in un modo diverso dal loro.

 

Questo seme della religione è stato osservato da molti; alcuni di quelli che l' hanno osservato sono stati con ciò inclini a nutrirlo, coltivarlo, a formarlo nelle leggi, e ad aggiungervi di propria invenzione, qualche opinione sulle cause degli eventi futuri, con cui pensavano che sarebbero stati meglio in grado di governare gli altri, e di fare il più grande uso dei loro poteri per loro stessi.

 

(T. Hobbes, Il Leviatano)