Kierkegaard, L’amore come comando

Kierkegaard analizza il senso dell’amore come comando e ne mette in evidenza la contraddittorietà (come è possibile comandare l’amore?) e la ricchezza che ne deriva per la nostra vita.

 

S Kierkegaard, Gli atti dell’amore

 

II precetto dell’amore del prossimo parla allora, con la stessa espressione “come te stesso”, di questo amore e dell’amore a se stesso – ed ora si dà fine all’introduzione del discorso con ciò che si desidera far oggetto di meditazione. Si tratta che sia il precetto dell’amore del prossimo sia quello dell’amore a se stessi coincidono: non si tratta soltanto del “come te stesso”, ma ancor piú del “tu devi”. È di questo che vogliamo parlare.

Tu “devi” amare,

poiché questo è il distintivo dell’amore cristiano e la sua caratteristica, cioè di contenere un’apparente contraddizione: che l’amare è un dovere.

Tu devi amare: questa è quindi la formula della “legge regale”. E in verità, mio uditore, se tu riesci a farti un’idea di com’era la figura del mondo prima che questa formula fosse pronunziata, o se tu aspiri a conoscere te stesso e consideri la vita e la situazione di spirito di coloro i quali, benché si chiamino cristiani, vivono in fondo nelle categorie del paganesimo: allora rispetto a questa realtà cristiana, come rispetto a tutto ciò ch’è cristiano, confesserai umilmente con l’ammirazione della fede che “una cosa simile non è sorta nel cuore di nessun uomo” [1 Cor. 2,9 ]. Infatti ora, poiché questo è stato comandato per 18 secoli di Cristianesimo e prima al tempo del Giudaismo; ora, poiché è stato insegnato ad ognuno: [avviene], in senso spirituale, come colui il quale, educato nella casa di genitori agiati, è quasi portato a dimenticare che il pane quotidiano è un dono. Ora, ecco che la realtà cristiana è molte volte rifiutata da parte di coloro che in essa sono stati educati, è rifiutata rispetto alle novità di ogni genere, è rifiutata come il cibo sano da parte di chi non è stato mai affamato, è respinta rispetto ai dolciumi; ora, ecco che la realtà cristiana è presupposta, presupposta come arcinota, come data, indicata “per andare oltre”. Ora quel precetto si recita certamente senz’altro da chiunque: ahimè, forse quant’è raro che qualcuno ci badi forse quant’è raro che un cristiano rifletta sul serio a quale sarebbe la sua condizione se il Cristianesimo non fosse entrato nel mondo! Quale coraggio però non ci vuole per dire la prima volta: “tu devi amare”, o piú esattamente quale autorità divina non occorre per capovolgere le idee e i concetti dell’uomo naturale! Poiché lí dove la lingua umana si ferma, in questo limite la Rivelazione entra con originalità divina e predica ciò che non è difficile alle menti profonde ed esperte delle cose umane, [36] ma che però “non sarebbe mai sorto nel cuore di un uomo” [1 Cor. 2,9]. In fondo, ciò non è difficile da capire una volta ch’è stato detto, e vuole essere compreso soltanto per essere messo in pratica, ma esso non è sorto nel cuore di nessun uomo. Prendi un pagano che non sia ancora abituato all’imparare sbadatamente la realtà cristiana come una filastrocca, oppure non ancora abituato all’idea di essere cristiano – ecco allora che questo precetto: “Tu devi amare”, non soltanto lo spaventerà, ma ecciterà la sua riflessione, gli sarà di scandalo. Proprio per questo si adatta al precetto dell’amore ciò ch’è segno distintivo della realtà cristiana: “Tutto è diventato nuovo” [2 Cor. 5, 17]. Il precetto non è a caso qualcosa di nuovo, ma non è una novità nel senso di curiosità, né una novità nel senso temporale. L’amore è esistito anche nel paganesimo: ma questa di dover amare è un’esigenza dell’eternità – e tutto è diventato nuovo. Che differenza da quel gioco di forze del sentimento, dell’istinto, dell’inclinazione e della passione, in breve dell’immediatezza, da quella magnificenza della poesia che canta con sorriso o in lagrime, con desiderio e auspicio: che differenza fra questo e la serietà del comando dell’eternità in spirito e verità, in sincerità e abnegazione!

Ma l’ingratitudine umana, quant’ha la memoria corta! Infatti la cosa piú alta che ora è offerta ad ognuno, la si considera un nulla; non fa nessuna impressione; né tanto meno se ne apprezza la preziosità, per il fatto che tutti hanno o possono avere la stessa cosa. Invece, se una famiglia possiede qualche gioiello prezioso che richiama qualche evento familiare, si racconta di generazione in generazione, dai padri ai figli e dai figli ancora ai loro figli, come le cose sono andate. Ma perché ora, dopo che il Cristianesimo da tanti secoli è diventato la proprietà del genere umano, si tace della rivoluzione dell’eternità che il Cristianesimo ha introdotto nel mondo? Forse che ogni generazione non è ugualmente vicina, sí da essere obbligata ad averne un’idea chiara? La rivoluzione portata dal Cristianesimo è forse meno importante per il fatto ch’è accaduta 18 secoli fa? È forse ora diventato anche meno importante il fatto ch’esiste un Dio, perché per tanti secoli molte generazioni hanno creduto in Lui? Ed è per me diventato meno importante – credere in Lui? E colui che vive ai nostri giorni, forse ch’è cristiano da 18 secoli per il fatto che il Cristianesimo è entrato nel mondo 18 secoli fa? Però non è passato tanto tempo e si può benissimo ricordare com’era l’uomo prima di diventare cristiano, quale rivoluzione esso ha causato – qualora il divenire cristiano abbia prodotto una rivoluzione. Non c’è affatto bisogno di esposizioni storico-universali di cos’era il paganesimo, come se esso fosse scomparso 18 secoli fa; poiché non è da molto tempo che tu, mio uditore, ed io eravamo pagani, di certo – anche se comunque siamo diventati cristiani.

S Kierkegaard, Gli atti dell’amore, Rusconi, Milano, 1983, pagg. 170-173