Leopardi, Cantico del gallo silvestre

La luce e la tenebra sono archetipo e simbolo di Essere e di Nulla, di vita e di morte, di verità e di menzogna. Svegliatevi alla verità, uscite dal mondo falso: questo è il canto mattutino del gallo silvestre. Il giorno – in quanto vero – è paradigma della vita dell’uomo: all’alba (come nella giovinezza) domina la speranza che, però, diminuisce a mano a mano che passano le ore e muore alla sera. Questa è la realtà che giorno dopo giorno è svelata dalla luce del Sole. Accanto ai temi tipici del pensiero leopardiano, questa “Operetta” presenta un concetto nuovo che richiama in qualche modo il pensiero di Schopenhauer: il senso dell’Universo è dato dal movimento e dalla vita che agisce al suo interno; un Essere eternamente immobile sarebbe inutile. C’è da sottolineare la forzatura “poetica” a conclusione dello scritto: l’Essere, in quanto non generato, non può finire (“l’esistenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine”); ma perché non pensare (immaginare) che un Universo ormai senza vita (perché tutte le cose che si muovono vengono dal Nulla e prima o poi al Nulla ritornano) e inutile finalmente dilegui nel Nulla?

La conclusione poetica contraddice – come osserva lo stesso Leopardi – la logica filosofica tradizionale, ma apre una prospettiva filosofica nuova, all’interno della quale è l’uomo che dà un senso all’Universo e, quindi e a maggior ragione, alla sua propria vita.

 

G. Leopardi, Cantico del gallo silvestre (l824)

 

Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell’uno e mezzo nella altra. vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo. Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica; rabbinica, cabalistica e talmudica, un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare piú d’un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d’intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; o fosse cantato una volta sola e chi l’oda cantare, o chi l’abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto; per farlo piú fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica: Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio, non mi dovrà essere imputato, essendo conforme a quello del testo originale: il qual testo corrisponde in questa parte all’uso delle lingue, e massime dei poeti, d’oriente.

Su, mortali, destatevi. Il dí rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.

Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll’animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi, si propone i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è piú desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L’una e l’altra insino alla vigilia del dí seguente, conservasi intera e salva; ma in questa; o manca o declina.

Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita, se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né sussurro d’api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o piú di miseria che oggi non vi si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia; nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l’intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu li presente o vedesti la felicità dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse i nasconde al tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o sfornita di virtú vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile, velocemente, dí e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice?

Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo difetto di questo sonno breve e caduco, è male per se mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte.

Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità, perocché niuna cosa è felice. Vero è che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro, ma da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro; e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte.

A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il piú comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti, ma quasi tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata; inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti piú che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dí passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso come effetto di errori, e d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza: questo per lo piú racconsolato e confidente; la sera trista, scoraggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gioventú della vita intera, cosí quella che i mortali provano in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche il dí si riduce per loro in età provetta.

Il fior degli anni, se bene è il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca in sí piccolo tempo, che quando il vivente a piú segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sí manifestamente, e di sí gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l’universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell’autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dí, e finalmente si estinguono; cosí l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio, ma un silenzio nudo e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Cosí questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi [Questa è conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, l’esistenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine].

 

(G: Leopardi, Tutte le opere, Sansoni, Firenze, l9885, vol. I, pagg. l56-l58)