Locke, La filosofia deve mirare alla verità e all'utilità

Il Saggio sull'intelletto umano, pubblicato a Londra nel 1690, è preceduto da una Epistola al lettore nella quale Locke racconta l'occasione da cui è nata l'opera e precisa l'obiettivo che si pone come filosofo: fare come “un operaio che vuole pulire un poco il terreno e togliere qualche immondizia dal cammino che porta alla conoscenza”.

 

J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, Epistola al lettore

 

Se fosse il momento di disturbarvi con la storia di questo Saggio, dovrei dirvi che cinque o sei amici si riunirono nella mia camera, e si misero a discutere su un argomento molto lontano da questo; ma subito dovettero arrestarsi per le difficoltà che emergevano da ogni parte. Dopo esserci un po' tormentati, senza avvicinarci alla soluzione dei dubbi che ci angustiavano, mi venne in mente che avevamo preso una strada sbagliata, e che, prima di accingerci a ricerche di questa natura, era necessario esaminare le nostre capacità, e vedere quali oggetti le nostre intelligenze erano o non erano adatte a trattare. Proposi questo ai miei compagni, che prontamente furono d'accordo; perciò fu stabilito che questa sarebbe stata la nostra prima ricerca. [...]

Può darsi che venga rimproverata come una grossa vanità o insolenza da parte mia la pretesa di istruire questa età tanto coltivata: perché la mia pretesa non è minore di questa, quando riconosco che pubblico questo Saggio con la speranza che possa essere utile agli altri. Ma, se mi è permesso di parlare liberamente di quelli che con finta modestia condannano come inutili le cose che scrivono essi stessi, penso che abbia un sapore molto piú forte di vanità o d'insolenza il pubblicare un libro per un fine diverso da quello dell'utilità. Manca moltissimo contro il rispetto che è dovuto al pubblico colui che stampa, e di conseguenza si aspetta che gli uomini leggano, quello in cui egli pensa che non debbano incontrare nulla che possa essere utile a sé o agli altri. E, se anche null'altro fosse trovato di ammissibile in questo trattato, tuttavia il mio intento non cesserebbe di essere questo e la bontà della mia intenzione dovrebbe fornirmi qualche scusa per la mancanza di valore del mio dono. Ed è questo che soprattutto mi mette al sicuro dalla paura delle censure che m'aspetto di non poter evitare, piú di quel che siano riusciti scrittori migliori di me. I princípi, le nozioni e i gusti degli uomini sono cosí differenti, che è difficile trovare un libro che piaccia o dispiaccia a tutti gli uomini. Riconosco che l'età nella quale viviamo non è tra le meno cólte, e perciò non è la cosa piú facile soddisfarla. Se non ho la buona fortuna di piacere, tuttavia nessuno deve offendersi con me. Dico subito a tutti i miei lettori, eccetto una mezza dozzina, che questo trattato all'inizio non è stato pensato per loro, e perciò essi non devono prendersela se non sono tra coloro ai quali il trattato è indirizzato. Ma tuttavia, se qualcuno pensa bene di arrabbiarsi con questo libro e di prendermi in giro, può farlo con tutta tranquillità, perché troverò qualche modo migliore di spendere il tempo che impiegarlo in controversie di questa specie. Avrò sempre la soddisfazione di aver mirato sinceramente alla verità e all'utilità, sebbene in uno dei modi piú modesti. La repubblica delle lettere non manca in questo momento di architetti, i cui possenti disegni, nell'avanzamento delle scienze, lasceranno monumenti duraturi all'ammirazione della posterità. [...] In una età che produce maestri come l'incomparabile signor Newton è ambizione sufficiente essere impiegato come un operaio nel pulire un po' il terreno, e nel togliere qualcuna delle immondizie che giacciono lungo il cammino che conduce alla conoscenza. La quale conoscenza avrebbe compiuto in questo mondo progressi molto maggiori, se gli sforzi di uomini pieni di ingegno e di industriosità non fossero stati ostacolati dall'uso cólto, ma frivolo, di termini bizzarri, affettati o inintelligibili, introdotti nelle scienze, e qui diventati oggetto di un'arte speciale, al punto tale che la filosofia, la quale non è altro che la vera conoscenza delle cose, fu considerata inadatta o incapace di essere portata in compagnie ben educate e in conversazioni civili. Modi di parlare vaghi e insignificanti e abuso di linguaggio per troppo tempo sono passati come misteri di scienza; e parole difficili e applicate a sproposito, con poco o nessun significato, hanno ottenuto, per prescrizione, il diritto di essere scambiate per cultura profonda e altezza di speculazione, al punto che non sarà facile persuadere quelli che parlano o quelli che li ascoltano, che quelle parole sono soltanto la copertura dell'ignoranza e l'impedimento della vera conoscenza. Aprire un varco nel santuario della vanità e dell'ignoranza sarà, suppongo, rendere un servizio all'intelligenza umana, sebbene siano cosí pochi quelli che sono disposti a pensare che essi ingannano o sono ingannati nell'uso delle parole.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 626-628)