Losee, Leibniz e la relazione tra scienza e metafisica

John Losee, professore associato di filosofia al Lafayette College di Eaton in Pensylvania, è autore di una “introduzione storica alla filosofia della scienza” (e non di una “storia della filosofia della scienza”). Egli si propone cioè di introdurre - pur nella dimensione diacronica della storia - ai “problemi” della filosofia della scienza. Proponiamo il paragrafo dedicato a Leibniz.

 

J. Losee, Introduzione storica alla filosofia della scienza, IX, 1.2

 

Leibniz fu scienziato di professione e diede contributi importanti alla matematica e alla fisica, ed estrapolò dalle sue scoperte scientifiche asserzioni metafisiche. Infatti, Leibniz stabilí un vicendevole scambio fra teorie scientifiche e princípi metafisici. Non soltanto sostenne i suoi princípi metafisici con argomentazioni analogiche basate sulle teorie scientifiche, ma usò anche i princípi metafisici per guidare la ricerca delle leggi scientifiche.

Un esempio è la relazione sui fenomeni d'urto e il principio di continuità. Leibniz usò il principio di continuità per criticare le leggi d'urto di Cartesio. Per Cartesio, se due corpi di uguale grandezza e velocità si scontrano, le loro velocità dopo la collisione sono le stesse ma hanno direzione opposta; se un corpo è piú grande dell'altro, dopo l'urto entrambi i corpi procedono nella direzione in cui stava viaggiando il corpo piú grande. Leibniz obiettò che è irragionevole sostenere che una somma infinitesimale di materia si concluda in un cambiamento di comportamento discontinuo (Lettera al Malebranche sulla filosofia cartesiana, in Scritti filosofici, vol. II, Utet, Torino, 1968, pagg. 53-59). Leibniz, correggendo le leggi cartesiane dell'urto, si rifece al fenomeno d'urto per sostenere la pretesa ontologica che la natura agisce invariabilmente in modo tale da evitare le discontinuità.

Un'interazione reciproca simile è presente nella discussione leibniziana sulla relazione fra i princípi estremali nella fisica e il principio di perfezione. Per esempio, egli sostenne che, visto che la natura sceglie sempre la linea d'azione piú facile o piú diretta fra una serie di alternative, il passaggio di un raggio di Sole da un mezzo a un altro obbedisce alla legge di Snel (la legge di Snel dichiara che “sen i/sen r = costante” per qualsiasi coppia di elementi dove i è l'angolo di incidenza di un raggio di luce e r è il suo angolo di rifrazione). Leibniz ricavò la legge di Snel applicando il calcolo differenziale che egli aveva sviluppato nella condizione che le “difficoltà di percorso” del raggio (la lunghezza del percorso per la resistenza de mezzo) siano minime. E considerò il successo di questa impresa un sostegno al principio metafisico per cui Dio governa l'Universo in modo tale che si realizzi il massimo di “semplicità” e di “perfezione” (Scritti di metafisica, in Scritti filosofici, vol. I, cit., pag. 91).

Un'ulteriore testimonianza della concezione leibniziana dell'interdipendenza tra la fisica e la metafisica è la relazione tra la conservazione della vis viva (mv2) e il principio di attività monadica. Da un lato Leibniz passò per via analogica dalla conservazione della vis viva nei processi fisici a una caratterizzazione dell'essere in sé come una “lotta intestina”. D'altro lato, la sua convinzione che l'attività della monade sul piano metafisico dovesse avere il suo correlato sul piano fisico, guidò la sua attenzione alla ricerca di una qualche “entità” che si conserva nelle interazioni fisiche.

Buchdahl richiamò l'attenzione sull'importanza dell'impegno metafisico di Leibniz mettendo a confronto le analisi dei processi di collisione fette da Huygens e da Leibniz. Mentre Huygens si limitò a notare che mv2, visto come prodotto dei parametri matematici, rimaneva costante in tali processi, Leibniz “sostanzializzò” la vis viva e ritenne che la sua conservazione fosse un principio fisico generale (G. Buchdahl, Metaphysics and the Philosophy of Science, Oxford, Blackwell, 1969, pagg. 416-417).

Leibniz tentò di interpretare l'Universo in modo che la visione meccanicistica del mondo centrata, sulle cause materiali ed efficienti, fosse sostenuta da considerazioni teleologiche. I princípi estremali, i princípi di conservazione e il principio di continuità erano adeguati a produrre l'auspicata integrazione fra il punto di vista meccanicistico e il punto di vista teleologico. Nel caso dei princípi estremali, per esempio, la connotazione teleologica è che i processi naturali avvengono in certo modo affinché certe grandezze raggiungano un valore minimo (o massimo). Il passo è breve, e Leibniz fu ansioso di farlo, per arrivare a sostenere che un Essere perfetto ha creato l'Universo in modo tale che i processi naturali soddisfino questi princípi.

Locke aveva lamentato il fatto che non si potesse passare da una conoscenza dell'associazione di qualità a una conoscenza delle costituzioni interne o delle “essenze reali” delle cose. Leibniz assunse un atteggiamento del tutto diverso nei confronti di questo gap epistemologico. Ammise che, a livello di fenomeno, gli scienziati possono conseguire soltanto probabilità o certezze morali”, ma rimaneva convinto che i princípi metafisici generali da lui formulati fossero verità necessarie. Le sostanze individuali (monadi) si rivelano necessariamente in accordo con un principio di perfezione che garantisce le loro interrelazioni armoniose. Possiamo essere certi che questa attività monadica “sta alla base” del fenomeno; ma non possiamo sapere che i princípi metafisici devono essere rappresentati per mezzo di un'istanza, a livello di fenomeno, in modo particolare.

Di regola, Leibniz sottolineò la certezza dei suoi princípi metafisici piuttosto che la natura contingente della conoscenza empirica. Il suo atteggiamento dominante era improntato all'ottimismo, anzi, a volte sembrò affermare anche qualcosa in piú della semplice probabilità delle generalizzazioni empiriche. Questa incoerenza può forse essere attribuita alla costante tendenza a stabilire la dipendenza del regno fenomenico da quello metafisico.

Leibniz riconobbe che un'immagine di un regno metafisico “al di là” del fenomeno interessa soltanto se ci sono forti legami fra i due regni. I piú stretti legami possibili sarebbero le relazioni deduttive fra i princípi metafisici e le leggi empiriche. Dato lo status necessario dei princípi metafisici, le relazioni deduttive amplierebbero il dominio del grado di connessione necessario al regno dei fenomeni.

Leibniz accarezzò questa possibilità. Egli usò un'analogia basata sulla teoria delle serie infinite per suggerire che ci sono forti legami tra i due regni. L'analogia è che i princípi metafisici sono collegati alle leggi fisiche come la legge che genera una serie infinita è collegata ai membri particolari di quella serie (G. Gale, The Physical Theory of Leibniz, in “Studia Leibnitiana II”, 2, 1970, pagg. 114-127). Ma anche se si dovesse accettare la forza di questa analogia, ciò non vorrebbe dire che i princípi metafisici implicano le leggi empiriche.

 

(J. Losee, Introduzione storica alla filosofia della scienza, il Mulino, Bologna, 1980, pagg. 121-125)