LUCIANO DI SAMOSATA, SCEGLIERE UNA SETTA FILOSOFICA E' IMPOSSIBILE


 

Licino — E però, o mio buon Ermotimo, bisogna non poco accorgimento sulla scelta delle vie e delle guide, e non dire: andiamo dove ci portano i piedi, perché sbaglieremo così, crederemo d'andare a Corinto, e saremo a Babilonia o a Battro. E neppure sta bene di confidarsi nel caso e credere di aver forse trovata la via ottima, se senza considerazione ci siamo gettati in una via qualunque : egli è possibile questo caso, ma è avvenuto forse una volta in tanto tempo. Noi in cose sì grandi non dobbiamo avventurarci temerariamente, né mettere le nostre speranze, come dice il proverbio, in un cesto per tragittare l'Egeo o l'Ionio. Non è ragionevole di biasimar la fortuna, se tirando con l'arco non si da nel segno vero, il quale è uno, tra mille falsi, quando neppure l'arciero d'Omero riuscì ad imbroccare; mirò alla colomba, e col dardo tagliò la fune: egli fu Teucro, credo (i). Ma è molto più ragionevole attendersi di cogliere in tutt'altro segno, che in quell'uno proposto. E che il pericolo non sia piccolo, se invece di andar per la via diritta, ci troviamo smarriti in una di queste vie strane, sperando che fortuna scelga meglio di noi, vo' mostrartelo con un esempio. Chi si è affidato al vento ed ha sciolto dal lido non può più tornare indietro e salvarsi facilmente, ma per necessità è trabalzato dal mare, e sente gran nausea, e timore, e gravezza di testa. Doveva egli prima di mettersi in mare salir sopra un'altura, ed osse­vare se il vento è favorevole a chi vuoi navigare a Corinto, e, per Giove, provvedersi di un ottimo pilota, e di nave con buoni fianchi da reggere all'urto dei flutti.

 

Ermotimo — Questo è il partito migliore, o Licino. Ma io so che tra quanti ce ne sono, non troveresti guide migliori e piloti più pratici degli stoici: e se vuoi giungere a Corinto, segui essi, va' sulle orme di Crisippo e di Zenone; diversamente è impossibile.

 

Licino — Ma cotesto che tu mi dici, o Ermotimo, non lo dicono tutti ? Lo stesso mi direbbe un discepolo di Platone, un seguace di Epicuro, e ciascun altro, che io non andrei a Corinto se non con lui. Per ciò si deve o credere a tutti, il che è cosa ridicolissima ; o non credere a nes­suno; e questo è il partito più sicuro, finché non troveremo il vero promesso. Ma poniamo che io, quale mi sono ora, ignorante di chi dica il vero fra tanti, scegliessi voi altri, e mi abbandonassi a te che mi sei amico, ma conosci i soli stoici ed hai camminato per la sola via loro; e che un iddio facesse risuscitar Platone, Pitagora, Aristotele, e gli altri. Questi ne vorrebbero ragione da me, mi menerebbero a un tribunale, mi accuserebbero d'averli ingiuriati, e direbbero : — Per qual cagione, o galantuomo, e per consiglio di chi, hai anteposto Crisippo e Zenone, nati ieri o ieri l'altro, a noi che siamo molto più vecchi, e non ci hai concesso di parlare, e non ti sei affatto informato di ciò che noi abbiamo detto ? — Se mi dicessero questo che risponderei loro? Mi basterebbe soggiungere che mi son confidato nel mio amico Ermotimo ? Essi mi risponderebbero: — Noi non conosciamo chi sia cotesto Ermotimo, né egli conosce noi, onde tu non dovevi riprovarci tutti e condannarci in contumacia, affidandoti ad un uomo che in filosofia conosce una sola strada, e forse neppur bene. I legislatori comandano ai giudici di non fare a cotesto modo, udire una parte sola, e non permettere all'altra di dire quel che crede in sua difesa; ma di ascoltare l'una e l'altra, affinchè, bilanciando le ragioni, trovino più facilmente il vero ed il falso: e se non si fa così, la legge con­cede il diritto di appellare ad altro tribunale. — Così direbbero ragionevolmente; e forse qualche filosofo di quelli mi si volterebbe, dicendomi: — Dimmi un po', o Licino, se un Etiope che non ha mai veduti altri uomini, come siamo noi, per non essere mai uscito del suo paese, in un'adunanza di Etiopi affermasse che in nessuna parte della terra ci sono uomini bianchi o biondi, ma tutti son neri, sarebbe egli creduto dai suoi ? Forse qualche vecchio Etiope gli risponderebbe: « E tu da dove lo sai, o presuntuoso, se non cacciasti mai il .capo [fuori del guscio, né sai che c'è negli altri paesi ? ». — Dovrei dire io che il vecchio ha ragione ? Tu che mi consigli, o Er­motimo ?

 

Ermotimo - Sì, mi pare che abbia tutta la ragione del mondo.

 

Licino - E pare anche a me. Ma quel che viene appresso non so se ti parrà così: a me pare, a me.

 

Ermotimo - E qual è ?

 

Licino - Quel filosofo certamente continuerà a parlare, e mi dirà: — Nello stesso conto adunque è tenuto da noi, o Licino, chi, conoscendo solamente gli stoici, come cotesto tuo amico Ermotimo, non ha viaggiato mai, non è stato né da Platone, né da Epicuro, né da alcun altro. Or quando egli dice che nelle altre sette non v'è tanto di bello e di vero quanto ve n'è nella Stoa e nelle sue dottrine, non pare anche a te che egli sia un presuntuoso, che vuoi sentenziare di tutte le cose, non conoscendone che una sola, non avendo mai messo un piede fuori dell'Etiopia ? — Che potrei rispondere io? La pura verità: cioè che noi abbiamo bene apprese le dottrine degli stoici per una certa voglia di filosofare secondo loro; e che non­dimeno non ignoriamo le dottrine degli altri, perché il maestro anche ce le espone, e spiegandole le confuta. E credi che così avrò turata la bocca a Platone, a Pitagora, ad Epicuro, e agli altri ? Mi rideranno in faccia, e mi diranno: — Che fa, o Licino, il tuo amico Ermotimo ? Vuole stare alla fede dei nostri avversari, nel giudicar di noi, e crede che le nostre dottrine sono quali le dicono essi, che o non le conoscono o nascondono il vero ? Dunque se egli vede qualche atleta prima di entrare in lizza esercitarsi così a scagliare sgambetti e menare di gran pugni all'aria, come se desse veramente ad un avversario, egli, che è l'agonoteta, lo farà tosto bandir vincitore: o crederà che questa è una prova sicura e fanciullesca senza nessuno a fronte; e che egli potrà giudicar della vittoria, quando l'atleta avrà atterrato e stancato il suo avversario; altrimente no ? Non si pensi, Ermotimo, per quel giuoco di schermaglia che i suoi maestri fanno con le ombre nostre, non si pensi che essi ci abbattano, o che le nostre dottrine siano agevoli a confutare, perché così essi fanno come i fanciulli che costruiscono le casucce che mal si reggono e tosto le abbattono; o pure fan come coloro che s'addestrano a tirare con l'arco, i quali, legato un fascio di paglia ad un palo, e allontanati un po', tirano in quel bersaglio: e se vi. danno e trapassan la paglia, tosto gridano, come se avesser fatto un gran colpo a trapassar di saetta fuor fuora un fantoccio. Non fanno così gli arcieri Persiani e Sciti; i quali cavalcando saettano, ed in segno che si mova e trascorra, e non stia saldo ad aspettare il dardo, ma corra velocissimo; onde spesso saettan le fiere, e taluni imbroccano anche gli uccelli. E quando vogliono provare come il colpo entri, mettono per bersaglio un le­gno, o uno scudo coperto di cuoi freschi, e correndo tirano in esso, e così si addestrano a fare di simili colpi quando sono in guerra.

 

(Luciano, Ermotimo)