Marcuse, Irrazionalità nella ragione

Secondo Marcuse teoria e prassi vanno ormai ognuna per conto proprio e la ragione, tutta impegnata nell’aumentare la produzione, è diventata essa stessa irrazionale. L’uomo occidentale è ormai immerso in una falsa coscienza, da cui deve uscire.

 

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione

 

Nell’impossibilità di indicare in concreto quali agenti ed enti di mutamento sociale sono disponibili, la critica è costretta ad arretrare verso un alto livello di astrazione. Non v’è alcun terreno su cui la teoria e la pratica, il pensiero e l’azione si incontrino. Persino l’analisi strettamente empirica delle alternative storiche sembra essere una speculazione irrealistica, e il farle proprie sembra essere un fatto di preferenza personale (o di gruppo).

Ma l’assenza di agenti di mutamento confuta forse la teoria? Dinanzi a fatti apparentemente contraddittori, l’analisi critica continua ad insistere che il bisogno di un mutamento qualitativo non è mai stato cosí urgente. Ma chi ne ha bisogno? La risposta è pur sempre la stessa: è la società come un tutto ad averne bisogno, per ciascuno dei suoi membri. L’unione di una produttività crescente e di una crescente capacità di distruzione; la politica condotta sull’orlo dell’annientamento; la resa del pensiero, della speranza, della paura alle decisioni delle potenze in atto; il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza senza precedenti costituiscono la piú imparziale delle accuse, anche se non sono la raison d’être di questa società ma solamente il suo sottoprodotto: la sua razionalità travolgente, motore di efficienza e di sviluppo, è essa stessa irrazionale.

Il fatto che la grande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad accettare la società presente non rende questa meno irrazionale e meno riprovevole. La distinzione tra coscienza autentica e falsa coscienza, tra interesse reale e interesse immediato, conserva ancora un significato. La distinzione deve tuttavia essere verificata. Gli uomini debbono rendersene conto e trovare la via che porta dalla falsa coscienza alla coscienza autentica, dall’interesse immediato al loro interesse reale. Essi possono far questo solamente se avvertono il bisogno di mutare il loro modo di vita, di negare il positivo, di rifiutarlo. È precisamente questo bisogno che la società costituita si adopera a reprimere, nella misura in cui essa è capace di “distribuire dei beni” su scala sempre piú ampia e di usare la conquista scientifica della natura per la conquista scientifica dell’uomo.

Posto dinanzi al carattere totale delle realizzazioni della società industriale avanzata, la teoria critica si trova priva di argomenti razionali per trascendere la società stessa. Il vuoto giunge a svuotare la stessa struttura della teoria, posto che le categorie di una teoria sociale critica sono state sviluppate nel periodo in cui il bisogno di respingere e sovvertire era incorporato nell’azione di forze sociali efficaci. Tali categorie erano in essenza dei concetti negativi, dei concetti d’opposizione, i quali definivano le contraddizioni realmente esistenti nella società europea dell’Ottocento. Perfino la categoria “società” esprimeva l’acuto conflitto esistente tra la sfera sociale e quella politica – la società era antagonista rispetto allo Stato. Del pari, termini come individuo, classe, privato, famiglia, denotavano sfere e forze non ancora integrate con le condizioni vigenti, erano sfere di tensione e di contraddizione. Con la crescente integrazione della società industriale, queste categorie vanno perdendo la loro connotazione critica e tendono a diventare termini descrittivi, ingannevoli od operativi.

Un tentativo di riprendere l’intento critico di queste categorie, e di comprendere come l’intento sia stato soppresso dalla realtà sociale, si configura in partenza come una regressione da una teoria congiunta con la pratica storica ad un pensiero astratto, speculativo: dalla critica dell’economia politica alla filosofia. Tale carattere ideologico della critica deriva dal fatto che l’analisi è costretta a procedere da una posizione “esterna” rispetto alla tendenze positive come a quelle negative, alle tendenze produttive come a quelle distruttive nella società. La società industriale moderna rappresenta l’identità diffusa di questi opposti – è il tutto che è in questione. Al tempo stesso la teoria non può assumere una posizione meramente speculativa; deve essere una posizione storica, nel senso che deve essere fondata sulle capacità di una data società.

Questa situazione ambigua implica una ambiguità ancora piú fondamentale. L’uomo a una dimensione oscillerà da capo a fondo tra due ipotesi contraddittorie: 1) che la società industriale avanzata sia capace di reprimere ogni mutamento qualitativo per il futuro che si può prevedere; 2) che esistano oggi forze e tendenze capaci di interrompere tale operazione repressiva e fare esplodere la società. Io non credo si possa dare una risposta netta; ambedue le tendenze sono tra noi, fianco a fianco, ed anzi avviene che una includa l’altra. La prima tendenza predomina e qualsiasi condizione possa darsi per rovesciare la situazione viene usata per impedire che ciò avvenga. La situazione potrebbe essere modificata da un incidente, ma, a meno che il riconoscimento di quanto viene fatto e di quanto viene impedito sovverta la coscienza e il comportamento dell’uomo, nemmeno una catastrofe produrrà il mutamento.

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1964, pagg. 11-13