Marx, Il concetto di lavoro rispetto ad Hegel

In questo brano Marx critica la concezione del lavoro hegeliana ritenendola troppo astratta e spirituale. Il lavoro nel sistema capitalistico non risulta più uno strumento di realizzazione e di libertà dell’uomo ma di alienazione e di asservimento.

 

L'importante nella Fenomenologia hegeliana e nel suo risultato finale — la dialettica dell'identità come principio motore e generatore — è dunque nel fatto che Hegel concepisce l'autoproduzione dell'uomo come un processo, l'oggettivazione come una contrapposizione, come estraneazione e come superamento di questa estraneazione; nel fatto, quindi, che egli coglie l'essenza del lavoro e concepisce l'uomo oggettivo, l'uomo vero perché reale, come risultato del proprio lavoro.

L'unilateralità ed il limite di Hegel metteremo, ora, in rilievo. Hegel si è collocato dal punto di vista dell'economia politica moderna. Egli concepisce il lavoro come l'essenza, come l'essenza che si avvera dell'uomo; egli vede solo la parte positiva del lavoro, non quella negativa. Il lavoro è il divenir-per-sé-dell'uomo nell'alienazione o come uomo alienato. Il lavoro che Hegel solo conosce e riconosce è il lavoro astrattamente spirituale.

L'operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza ed estensione. L'operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci.

Questo fatto non esprime nient'altro che questo: che l'oggetto prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall'economia politica, come annullamento dell'operaio, e l'oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell'oggetto, e l'appropriazione come alienazione, come espropriazione.

La realizzazione del lavoro si palesa talmente come annullamento che l'operaio è annullato fino alla morte per fame.

Tutte queste conseguenze si trovano nella determinazione: che l'operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come ad un oggetto estraneo. Poiché è chiaro, per questo presupposto, che quanto più l'operaio si consuma nel lavoro tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, ch'egli si crea di fronte, e tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno egli possiede. L'operaio mette nell'oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all'oggetto. Più è grande questa sua attività e più l'operaio diventa senza oggetto. Ciò ch'è il prodotto del suo lavoro egli non lo è. Quanto maggiore dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso. L'espropriazione dell'operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un'esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all'oggetto, lo confronta estranea e nemica. In che consiste ora l'espropriazione del lavoro? Primieramente in questo: che il lavoro resta estemo all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l'operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L'operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori dal lavoro, e fuori di sé nel lavoro. Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni a esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d'altro genere, il lavoro è fuggito come una peste. Il lavoro estemo, il lavoro in cui l'uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro-mortificazione. Infine l'esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro, che il lavoro non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro.

Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt'al più nell'aver una casa, nella sua cura corporale, ecc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l'umano e l'umano il bestiale.

Il mangiare, il bere, il generare, ecc., sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell'astrazione che le separa dal restante cerchio dell'umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici.

Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi sta di fronte come una potenza straniera, a chi esso appartiene allora?

Se la mia propria attività non mi appartiene, ma è un'estranea e coartata attività, a chi appartiene allora? A un ente altro da me. Chi è questo ente?

L'ente estraneo, al quale appartiene il lavoro e il prodotto del lavoro, al servizio del quale sta il lavoro e per il godimento del quale sta il prodotto del lavoro, può esser soltanto l'uomo stesso. Quando il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio, e gli sta di fronte come una potenza estranea, ciò è solo possibile in quanto esso appartiene ad un altro uomo estraneo all'operaio. Quando la sua attività gli è penosa, essa dev'essere godimento per un altro, gioia di vivere di un altro.

Dunque, nel lavoro alienato, espropriato, l'operaio produce il rapporto che a questo lavoro ha un uomo estraneo e che sta fuori di esso. Il rapporto dell'operaio col lavoro genera il rapporto del capitalista — o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro — col medesimo lavoro. La proprietà privata è dunque il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del lavoro espropriato, del rapporto estrinseco dell'operaio alla natura e a se stesso.

La proprietà privata risulta così dall'analisi del concetto del lavoro espropriato, cioè dell'uomo espropriato, del lavoro alienato, della vita alienata, dell'uomo alienato.

 

(Marx, Manoscritti economico-fìlosofìci del 1844)