Michelstaedter, La persuasione

Carlo Michelstaedter (1887-1910), parte dalla distinzione fra alétheia e dóxa e la interpreta con le categorie della persuasione e della retorica. Su questa base egli sviluppa poi una serrata critica dell’Occidente, inteso come “vivere inautentico”, e indica la via del superamento dell’egoismo nell’ascesi.

In questa lettura egli afferma che la vita umana è immersa nella solitudine, con un desiderio profondo di appartenenza e di possesso, che però rimangono sempre inappagati.

 

C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica

 

So che voglio e non ho cosa io voglio. Un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio; poiché quant’è peso pende, e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza. lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del piú basso, e scenda indipendente fino a che sia contento di scendere. Ma in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta, e vuole pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza quello che essa ogni volta tenga. E nessuno dei punti futuri sarà tale da accontentarlo, che necessario sarà alla sua vita, fintanto che lo aspetti (óphra án méne autón) piú in basso; ma ogni volta fatto presente, ogni punto gli sarà fatto vuoto d’ogni attrattiva non piú essendo piú basso; cosí che in ogni punto esso manca dei punti piú bassi e vieppiú questi lo attraggono; sempre lo tiene un’ugual fame del piú basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in un punto gli fosse finita, e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro, in quel punto esso non sarebbe piú quello che è: un peso.

La sua vita è questa mancanza della sua vita; Quando esso non mancasse piú di niente, ma fosse finito, perfetto: possedesse se stesso, esso avrebbe finito d’esistere. Il peso è a se stesso impedimento a posseder la sua vita, e non dipende piú da altro che da se stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può mai esser persuaso.

 

Né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, ché tanto è vita quanto si continua, e si continua nel futuro quanto manca del vivere. Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l’aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d’esser vita.

Tante cose ci attirano nel futuro, ma nel presente invano vogliamo possederle. – Io salirò sulla montagna; l’altezza mi chiama, voglio averla; l’ascendo, la domino; ma la montagna come la posseggo? Ben son alto sulla pianura e sul mare; e vedo il largo orizzonte che è della montagna; ma tutto ciò non è mio, non è in me quanto vedo, e per piú vedere non mai “ho visto”: la vista non la posseggo. – Il mare brilla lontano; in altro modo esso sarà mio; io scenderò alla costa; io sentirò la sua voce; navigherò sul suo dorso... e sarò contento. Ma ora che sono sul mare, “l’orecchio non è pieno d’udire”, e la nave cavalca sempre nuove onde, “un’ugual sete mi tiene”. Se mi tuffo nel mare, se sento l’onda sul mio corpo – ma dove sono io non è il mare; se voglio andare dove è l’acqua e averla, le onde si fendono davanti all’uomo che nuota se bevo il salso, se esulto come un delfino, se m’annego – ma ancora il mare non lo posseggo; sono solo e diverso in mezzo al mare.

Né se l’uomo cerchi rifugio presso alla persona ch’egli ama, egli potrà saziar la sua fame; non baci, non amplessi, o quante altre dimostrazioni l’amore inventi, li potranno compenetrare l’uno dell’altro: ma saranno sempre due, e ognuno solo e diverso di fronte all’altro.

Gli uomini lamentano questa loro solitudine. ma se essa è loro lamentevole è perché essendo con se stessi, si sentono soli; si sentono con nessuno e mancano di tutto.

 

Grande Antologia filosofica, Marzorati, Milano, 1976, vol. XXIV, pagg. 411-412