Moore, Sul problema kantiano del noumeno e del fenomeno

Al contrario di Kant, che riteneva esistesse un’unica prova per dimostrare l’esistenza di un mondo esterno, quella della passività dei sensi nell’atto della sensazione, Moore ritiene invece che di prove se ne possono avere quante se ne vuole. E fa un esempio.

 

G. E. Moore, Proof of an external world, “Proceedings of the British Accademy”, 25, 1939; Ristampato in Philosophical papers, London 1959; trad. it. di M. A. Bonfantini, Saggi filosofici, Lampugnani Nigri, Milano 1970, pagg. 133-135, 153

 

Nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragione pura di Kant troviamo un passo, che, nella traduzione del professor Kemp Smith, è reso nel modo seguente:

“Rimane tuttora uno scandalo per la filosofia... che l'esistenza di cose al di fuori di noi... debba essere accettata semplicemente per fede, e che, se qualcuno pensasse bene di dubitare della loro esistenza, noi non siamo in grado di opporre ai suoi dubbi nessuna prova soddisfacente”.

Sembra chiaro da queste parole che Kant pensasse che fosse impresa di una certa importanza quella di offrire una prova de “l'esistenza di cose al di fuori di noi” [...].

Ma qual è il significato della tesi in questione? Credo che si debba riconoscere che l'espressione “cose al di fuori di noi” sia piuttosto bizzarra e che il suo significato non sia certo un modello di chiarezza. Sarebbe suonata meno strana, se, invece di “cose al di fuori di noi”, avessi detto “cose esterne”; e cosí forse anche il significato di quest'espressione sarebbe apparso piú chiaro; e credo che possiamo rendere il significato di “cose esterne” ancora piú limpido, se spieghiamo che questa locuzione è stata usata di regola dai filosofi come forma abbreviata per “cose esterne alle nostre menti”. Il fatto è che c'è stata una lunga tradizione filosofica, secondo la quale le tre espressioni “cose esterne”, “cose esterne a noi”, e “cose esterne alle nostre menti” sono state usate come fra loro equivalenti, e sono state usate, ognuna di esse, come se non avessero bisogno di alcuna spiegazione. L'origine di quest'uso invalso, io non la conosco. Comunque, è un uso che ritroviamo di già in Descartes; e dato che egli impiega queste espressioni come se non avessero bisogno di spiegazione, è presumibile che esse siano state usate col medesimo significato anche prima. Delle tre, la locuzione “esterne alle nostre menti” mi sembra la piú chiara, giacché almeno esplicita che non si intendono le cose “esterne ai nostri corpi”; mentre tutte e due le altre locuzioni potrebbero essere assunte a significare proprio questo – e infatti ci sono state molte confusioni anche tra i filosofi, fra le nozioni di “cose esterne” e di “cose esterne ai nostri corpi”. [...]

Mi sembra che, ben lungi dall'esser vero – come Kant afferma di ritenere – che ci sia una sola prova possibile dell'esistenza di cose al di fuori di noi, e precisamente quella ch'egli stesso ha fornito, io sono ora perfettamente in grado di offrire un gran numero di prove differenti, ciascuna delle quali è una dimostrazione compiutamente rigorosa; e credo, altresí, di essere stato in grado in molte altre occasioni di offrire molte altre prove. In questo momento, io sono perfettamente in grado di dimostrare, per esempio, che esistono due mani umane. Come? Tenendo levate le mie due mani e dicendo, mentre faccio un certo gesto con la mano destra, “Ecco qui una mano”, e poi aggiungendo, mentre faccio un certo gesto con la sinistra, “E qui ecco un'altra mano”. E se, facendo ciò, io ho anche dimostrato ipso facto l'esistenza di cose esterne, vedete bene che io sono ora in grado di ripetere la prova in numerosi altri modi: non c'è nessun bisogno di moltiplicare gli esempi.

Ma io ho davvero provato poco fa che in quel momento esistevano due mani umane? Affermo decisamente di averlo fatto, e anzi di aver fornito una prova perfettamente rigorosa, e forse addirittura tale che risulterebbe impossibile darne di migliori o di piú rigorose di checchessia. Naturalmente, la mia prova non avrebbe costituito una vera prova, a meno che fossero state soddisfatte tre condizioni: e cioè, (1) a meno che la premessa che io adducevo a prova della conclusione fosse differente dalla conclusione che ponevo come tesi da dimostrare; (2) a meno che la premessa addotta fosse qualcosa che conoscevo per vero, e non semplicemente qualcosa che credessi vero ma di cui non fossi in alcun modo sicuro, e qualcosa che, sebbene effettivamente vero non riconoscessi per tale; e (3) a meno che la conclusione discendesse davvero dalle premesse. Ma tutte e tre queste condizioni sono state realmente soddisfatte dalla mia dimostrazione.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. I, pag. 574-575