More, I nobili, i parassiti, i poveri e la giustizia

Nel Primo Libro di Utopia Thomas More racconta del suo incontro con Raffaele Itlodeo, che aveva viaggiato insieme ad Amerigo Vespucci. Prima di narrare dello Stato perfetto, ovvero l'isola che non c'è, il navigatore ricorda di essere stato anche in Inghilterra ed esattamente presso il prelato John Morton (1420-1500) - che More conosceva bene perché era stato accolto come paggio nella sua casa e da lui aveva avuto la possibilità di studiare a Oxford -. In casa di Morton Itlodeo partecipa ad una discussione sul furto e sulla pena di morte per i ladri. More, per bocca di Itlodeo, traccia un quadro ironico e realistico dell'Inghilterra.

 

Th. More, Utopia, I

 

C'è dunque un sí gran numero di nobili, che non solo vivono in ozio essi, a mo' di fuchi, delle fatiche altrui, degli affittuari per esempio, e li scorticano a sangue per accrescere le proprie rendite (questa è l'unica economia che conoscono, ma prodighi poi sino a cadere in miseria), ma anche si trascinano attorno un codazzo interminabile di sfaccendati, che non appresero mai l'arte di guadagnarsi il pane. Sennonché, se avviene che il padrone se ne va da questo mondo, ovvero se si ammalano essi, vengono immediatamente messi alla porta, ché li mantengono piú volentieri a non far nulla anziché malati; senza dire che spesso l'erede di chi è morto non è piú capace lí per lí di mantenere ancora la servitú del padre. Ma quelli intanto son presi da una fiera fame, se non si danno fieramente a rubare. E che altro potrebbero fare? Quando hanno sciupato, ad andare a zonzo, il vestito e la salute, non osano i nobili tenerli seco, cosí emaciati dalle malattie e coperti di cenci. Molti nemmeno potrebbero prenderseli i contadini, ben sapendo che chi è stato allevato mollemente nell'ozio e nei piaceri, avvezzo, con una scimitarra a fianco e con uno scudo, a guardare i vicini con faccia da scioperato e disprezzar tutti a paragone di se stesso non è per nulla adatto a servir fedelmente a un povero, con uno zappone in mano o una marra, per una scarsa mercede e un misero vitto. [...]

Sennonché a questa povertà, a questa miserevole indigenza si aggiunge un lusso inopportuno. Non solo chi è a servizio di nobili, ma anche operai, ma starei per dire anche gente di campagna, ogni classe infine, ostenta una pompa sfacciata nelle vesti, un lusso eccessivo nel tenor di vita. Ora, bettole, taverne, bordelli e quei nuovi bordelli che son diventati gli spacci di vino e le birrerie, e poi tanti giochi immorali, giochi d'azzardo, carte, bossoli [back gammon], pallone, bocce, disco, non sono uno spreco di danaro? Non manda questo per la via piú breve chi vi è dedito, dopo averlo lasciato senza soldi, a rubare in qualche luogo?

Allontanate queste varie pesti perniciose da voi, stabilite che le fattorie e i villaggi dei contadini o siano rifatti da chi li distrusse, o sian lasciati a chi vuol rimetterli a posto; ponete un freno a codesti accaparramenti da parte dei ricchi, a questa loro licenza, quasi di monopolio. Si tenga meno gente in ozio, si rifaccia l'agricoltura, si rinnovi la lavorazione della lana, ci sia qualche onesta occupazione in cui possa piú utilmente esercitarsi codesta turba di sfaccendati. È la miseria che li ha resi ladri sinora, e quelli che intanto son vagabondi o servi in ozio, tra breve saranno evidentemente ladri gli uni e gli altri. Se non mettete rimedio a tali mali, è vano vantar la giustizia esercitata a punir furti, giustizia piú appariscente che giusta o utile.

Non si deve consentire a disposizioni di leggi cosí draconiane che, in ogni piccola disubbidienza in cose di nessun conto, diano mano alla spada, né a massime cosí stoiche da considerare uguali tutti i peccati, come se non ci fosse differenza alcuna fra uccidere un uomo o involargli del danaro. Fra queste due cose non c'è nessuna somiglianza, nessuna parentela, se l'equità ha qualche valore. Dio ha proibito di uccidere, e noi con tanta facilità uccidiamo per la sottrazione di un po' di danaro? Ché, se si volesse intendere che è vero che per ordine di Dio è stata vietata ogni facoltà di uccidere, salvo però il caso che la legge umana imponga di uccidere, che mai si opporrebbe acciocché allo stesso modo stabilissero gli uomini che bisogna permettere lo stupro, l'adulterio, lo spergiuro? Giacché, avendoci tolto Iddio il diritto di dar morte non solo agli altri ma anche a noi stessi, ammesso il caso che, per un accordo fra gli uomini, si stabilisca di sgozzarsi a vicenda secondo determinati princípi, e che ciò abbia tanta forza da sciogliere chi accetta detto accordo dal vincolo di quel precetto divino, in modo da levar di mezzo, senza alcuna eccezione da Dio prevista, quelli cui la sanzione umana comanda di uccidere, in tal caso non avrebbe il precetto divino forza giuridica solo in quanto lo consente il diritto umano? Cosí evidentemente accadrà che allo stesso modo, in tutte le cose, saranno gli uomini a stabilire sino a che punto convenga osservare le prescrizioni divine. Da ultimo, la legge mosaica, per quanto ferocemente spietata, per esser stata fatta contro schiavi e schiavi cocciuti, punisce il furto con un'ammenda, non con la morte. Bisogna dunque credere che Dio, nella sua nuova legge di bontà, per cui comanda qual padre a figli, non ci abbia voluto lasciare maggior libertà di infierire gli uni contro gli altri.

Son questi i motivi per cui non credo lecito uccidere. Quanto poi sia pazzesco ed anche dannoso allo Stato punire allo stesso modo un ladro e un omicida, non c'è nessuno, credo, che non lo sappia. Quando infatti un malandrino vedesse che, condannato per furto, non corre minor pericolo che se fosse convinto anche di omicidio, da questa sola riflessione si sentirà spinto ad ammazzare colui, che altrimenti avrebbe soltanto svaligiato, e ciò per il fatto che non solo, se è sorpreso, non corre maggior pericolo, ma anche che, a uccidere, c'è maggior sicurezza, maggior speranza di non esser scoperto, una volta levato di mezzo chi poteva denunziarlo. A questo modo, quando cerchiamo di atterrire con troppa crudeltà i ladri, li lanciamo allo sterminio dei galantuomini.

 

(T. Moro, Utopia, Laterza, Bari, 1982, pagg. 22, 27-30)