In Utopia viene anche praticata l’eutanasia, sia pure a
determinate condizioni.
Th. More, Utopia, II,
Sugli schiavi
I malati, come dicemmo, li curano con grande affetto e non
lasciano proprio nulla che li renda alla buona salute, regolando le medicine e
il vitto; anzi alleviano gl’incurabili con l’assisterli, con la conversazione e
porgendo loro infine ogni sollievo possibile. Se poi il male non solo è
inguaribile, ma dà al paziente di continuo sofferenze atroci, allora sacerdoti
e magistrati, visto che è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e
gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a non
porsi in capo di prolungare ancora quella peste funesta, e giacché la sua vita
non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente si liberi lui
stesso da quella vita amara come da prigione o supplizio, ovvero consenta di
sua volontà a farsene strappare dagli altri: sarebbe questo un atto di
saggezza, se con la morte troncherà non gli agi ma un martirio, sarebbe un atto
religioso e santo, poiché in tal faccenda si piegherà ai consigli dei
sacerdoti, cioè degli interpreti della volontà di Dio. Chi si lascia
convincere, mette fine alla vita da sé col digiuno, ovvero si fa addormentare e
se ne libera senza accorgersi; ma nessuno vien levato di mezzo contro sua
voglia, né allentano l’affetto nel curarlo. Morire a questo modo, quando lo
hanno convinto della cosa, è onorevole; altrimenti chi si dà morte per motivi
non giusti agli occhi dei sacerdoti e del senato, non lo ritengono degno di
esser seppellito o cremato, ma viene ignominiosamente gettato senza tomba in
qualche pantano.
T. Moro, Utopia, Laterza,
Bari, 1982, pagg. 97–98