MILL, L’edonismo qualitativo

 

Quanto all’errore, frutto d’ignoranza, del supporre che coloro che sostengono che l’utilità è il criterio di ciò che è moralmente giusto e di ciò che non lo è impieghino il termine nel significato limitato e proprio soltanto alla lingua famigliare, secondo il quale l’utilità è contrapposta al piacere, nulla di più che alcune brevi osservazioni si rendono necessarie. Gli oppositori filosofici dell’Utilitarismo hanno diritto alle nostre scuse, se abbiamo dato l’impressione, anche soltanto per un istante, di confonderli con persone capaci di un’idea così assurdamente sbagliata; la quale è tanto più straordinaria, in quanto l’accusa opposta, e cioè quella di ricondurre ogni cosa al piacere, e per di più alla forma più grossolana del piacere, è un’altra delle comuni accuse all’Utilitarismo. Tanto che, come è stato osservato acutamente da un intelligente scrittore, lo stesso tipo di persona, e sovente la stessa persona, denunziano la teoria " come arida al punto di essere inattuabile, quando la parola utilità precede la parola piacere, e come voluttuosa al punto di essere troppo attuabile, quando la parola piacere precede la parola utilità ". Coloro che non sono completamente ignoranti di tale questione sono consapevoli che tutti gli autori che hanno sostenuto la teoria dell’utilità, da Epicuro a Bentham, hanno inteso con tale termine non qualche cosa che debba essere distinta dal piacere, bensì il piacere stesso ed insieme la liberazione. dalla sofferenza; ed invece di contrapporre l’utile al piacevole, o a ciò che è di ornamento alla vita, hanno sempre dichiarato che per ciò che è utile si intendono significare proprio queste qualità, fra le altre. E tuttavia la grande massa, ivi compresa la massa degli scrittori, e non solo di quelli che scrivono sui giornali e sui periodici, ma degli scrittori di ponderosi e pretenziosi volumi, continuamente cadono in questo errore superficiale. Avendo afferrato la parola "utilitarista", ma senza conoscere assolutamente niente di essa, a parte il suono, se ne servono di solito per esprimere il rifiuto del piacere o l’indifferenza ad esso in uno o in un altro dei suoi aspetti: bellezza o eleganza o divertimento. E per di più questa parola, usata per ignoranza in modo così erroneo, non serve sempre come termine dispregiativo, anzi a volte è un complimento, come se comportasse una superiorità sulla frivolezza e sulla ricerca del semplice piacere dell’instante ". Questo uso corrotto è il solo conosciuto comunemente dalla gente, ed è quello mediante il quale le nuove generazioni si formano la loro unica idea del suo significato. Coloro che avevano introdotto la parola, ma per molti anni hanno cessato di servirsene come di un nome caratteristico, può darsi che si sentano ora in dovere di rimetterla in circolazione, se così facendo possono sperare di contribuire in qualche modo a salvare il termine dalla completa degradazione del suo significato. La dottrina che ammette come fondamento della morale l’Utilità, o il Principio della Massima Felicità, sostiene che un’azione è moralmente non giusta nella misura in cui ha la tendenza a produrre il contrario della felicità. Per felicità si intendono il piacere e l’assenza della sofferenza, per infelicità il dolore e la privazione del piacere. Perché si possano avere delle idee chiare sulla norma morale stabilita da questa teoria, si dovrebbero dire molte altre cose, in particolare che cosa sia incluso nell’idea del piacere e nell’idea del dolore, e fino a che punto questo problema sia lasciato aperto. Ma queste spiegazioni supplementari non modificano la concezione della vita sulla quale è fondata tale teoria etica, e cioè a dire che il piacere e la liberazione dalla sofferenza sono le uniche cose desiderabili come scopo, e che tutte le cose desiderabili (le quali sono altrettanto numerose nel sistema utilitarista quanto in qualsiasi altro sistema) sono desiderabili sia per il piacere che è insito in esse, sia come mezzi per far progredire il piacere e tentare di evitare la sofferenza. Ora, tale concezione della vita suscita nella mente di molti, e vi sono tra di loro anche persone altamente stimabili per sentimenti ed intenzioni, una avversione inveterata. Il presupporre che la vita non abbia un fine più alto che il piacere (per servirsi delle loro stesse espressioni), che non vi sia un traguardo migliore e più nobile al desiderio e alle ambizioni, viene indicato da costoro come cosa bassa ed abietta, come una dottrina degna di maiali soltanto, ai quali appunto i seguaci di Epicuro, in un’epoca molto antica, venivano paragonati. E anche i sostenitori moderni di questa teoria sono oggetto di tanto in tanto di paragoni ugualmente cortesi da parte dei loro critici tedeschi, francesi e inglesi. Attaccati in tal modo, gli Epicurei hanno sempre replicato che non sono loro, bensì i loro accusatori, a rappresentare la natura umana in una luce degradante, dato che l’accusa presuppone che gli esseri umani non siano capaci di altri piaceri, se non quelli di cui i maiali sono capaci. Se questo presupposto fosse vero, l’imputazione di cui l’Epicureo è fatto oggetto non potrebbe più essere negata, ma non costituirebbe più una colpa, perché, se le fonti del piacere fossero esattamente le stesse per i maiali e per gli esseri umani, una norma di vita che fosse accettabile per gli uni dovrebbe esserlo ugualmente per gli altri. Il paragonare la vita epicurea a quella delle bestie è sentito come degradante proprio perché i piaceri animaleschi non soddisfano a quella che è la concezione della felicità dell’essere umano. Gli esseri umani hanno facoltà più elevate che non i semplici appetiti animali, ed una volta che essi ne abbiano preso coscienza non considerano che possa chiamarsi felicità una condizione in cui quelle facoltà non vengano soddisfatte. Non è in verità che io consideri assolutamente ineccepibile il procedimento degli epicurei nel dedurre dal principio utilitarista le loro conseguenze sistematiche. Per poter compiere questa operazione in maniera anche soltanto accettabile, è necessario che vengano inclusi nel sistema molti elementi tanto stoici quanto cristiani Ma non si conosce una sola concezione di vita epicurea che non assegni ai piaceri dell’intelletto, ai piaceri del sentimento e dell’immaginazione e ai piaceri legati ai sentimenti morali un valore molto più alto, in quanto piaceri, che non a quelli della semplice sensazione. Si deve ammettere tuttavia che in generale gli scrittori utilitaristi hanno affermato la superiorità dei piaceri mentali su quelli del corpo soprattutto in ragione della loro maggior durata, della loro maggior sicurezza, del loro minor costo, ecc., - cioè a dire in ragione dei vantaggi dovuti alle circostanze, piuttosto che in ragione della loro intrinseca natura. E in ciò, gli utilitaristi sono riusciti a fornire prove decisive a sostegno della loro tesi; ma essi avrebbero benissimo potuto sostenerla sulla base di quelle altre, e potremmo dire più alte, considerazioni, rimanendo pienamente coerenti con se stessi. Riconoscere che alcune specie di piacere sono più desiderabili ed hanno maggior valore che altre, è perfettamente conciliabile con il principio di utilità. Sarebbe assurdo se, mentre nella valutazione delle altre cose le considerazioni qualitative hanno il loro posto accanto alle considerazioni quantitative, nella valutazione dei piaceri si dovesse dipendere unicamente dalle considerazioni quantitative. Se mi si chiede che cosa io intenda per una differenza qualitativa fra i piaceri, o che cosa aumenti il valore di un piacere rispetto ad un altro, semplicemente in quanto piacere, se si esclude il fatto che è di quantità maggiore, non vi è che una risposta possibile. Se di due piaceri ce ne è uno per il quale tutti, o quasi tutti, coloro che hanno fatto l’esperienza di entrambi hanno una decisa preferenza, senza tener conto di alcun sentimento di obbligazione morale nel preferirlo, ebbene, quello è il piacere più desiderabile. Se uno dei due piaceri è giudicato da coloro che li conoscono entrambi, e con competenza di causa, talmente al di sopra dell’altro da essergli preferito pur sapendo che sarà accompagnato da una quantità maggiore di insoddisfazione, e se costoro non lo cederebbero in cambio di nessuna quantità dell’altro piacere di cui la loro natura è capace, siamo allora giustificati nell’ascrivere al godimento che è stato preferito una superiorità qualitativa tale da sopravanzare la dimensione quantitativa al punto di rendere questa, a paragone, insignificante. Ora, è un fatto incontestabile che coloro che sono in ugual misura a conoscenza di due possibili modi di vita, e che sono in ugual misura in grado di apprezzarli e di ricavarne godimento, danno la loro preferenza marcatissima a quello fra i due che richiede le loro facoltà più elevate. Poche creature umane acconsentirebbero ad essere mutate in un animale inferiore, seppure con la promessa di un pieno godimento dei piaceri propri a quell’animale; nessun essere umano intelligente acconsentirebbe a divenire uno sciocco, nessuna persona istruita vorrebbe essere un ignorante, nessuna persona di fine sentire e di coscienza vorrebbe essere egoista e vile, anche se fossero persuasi che lo sciocco, il somaro e il furfante sono più soddisfatti della loro sorte di quanto essi stessi non lo siano della propria. Non vorrebbero rinunciare a quello che essi hanno in più, rispetto a quegli ultimi, neppure in cambio dei soddisfacimento completo di tutti i desideri che hanno invece in comune con loro. Se si immaginano di poterlo fare, è soltanto in casi di infelicità così profonda che, per poter sfuggire a quella condizione, sarebbero disposti a cambiare la loro posizione quasi per una qualsiasi altra per quanto indesiderabile in effetti ai loro stessi occhi. Un essere dotato di facoltà più elevate ha bisogno, per essere felice, di molto di più, è capace probabilmente di sofferenze più acute ed è certamente più disarmato di fronte a queste che non un essere di levatura inferiore; ma, nonostante sia soggetto a questi svantaggi, egli non può veramente desiderare di sprofondare ad un livello di esistenza che ritiene inferiore. Potremo dare di questa riluttanza la spiegazione che ci pare, potremo attribuirla all’orgoglio, nome che viene assegnato indiscriminatamente ad alcuni dei sentimenti più stimabili di cui l’umanità sia capace come pure ad alcuni dei meno stimabili; potremo ascriverla all’amore della libertà e dell’indipendenza personale, richiamo che era per gli stoici il mezzo più efficace per inculcare tale riluttanza; potremo attribuirla all’amore del potere o al gusto per l’avventura, sentimenti che effettivamente vi hanno parte e vi contribuiscono. E tuttavia il nome più appropriato è quello di senso di dignità che tutti gli esseri umani possiedono, in una forma o nell’altra, e per dì più in proporzione, anche se assolutamente non esatta, alle loro facoltà più elevate, e che è parte così essenziale della felicità di coloro in cui esso è radicato, che nulla che lo contrasti potrebbe mai essere, eccetto che per un breve istante, oggetto dì desiderio per loro. Chi supponesse che questa preferenza è esercitata a spese della felicità - cioè a dire che l’essere superiore in circostanze pressappoco uguali non è più felice dell’inferiore - confonderebbe due idee molto differenti, l’idea della felicità e l’idea della soddisfazione. È indiscutibile che un essere le cui capacità di godimento sono limitate ha probabilità maggiori che esse vengano soddisfatte; mentre un essere che è generosamente dotato avrà sempre l’impressione che, così come il mondo è fatto, la felicità a cui può aspirare è imperfetta. Ma potrà imparare a sopportare le imperfezioni, per poco che siano sopportabili, e queste non gli faranno invidiare quell’altro essere che appunto è insensibile a quelle imperfezioni, ma solamente perché non sospetta minimamente il bene da esse appena oscurato. È meglio essere un essere umano insoddisfatto che un porco soddisfatto; meglio essere Socrate insoddisfatto che un imbecille soddisfatto. E se l’imbecille o il porco sono d’opinione diversa, questo è dovuto al fatto che essi conoscono della questione soltanto l’aspetto che li riguarda. L’altra parte del nostro paragone conosce entrambi i lati del problema. Si potrà obiettare che molti, che pure sono capaci di piaceri più elevati, a volte, sotto la spinta della tentazione, antepongono piaceri più bassi ad essi. Questo tuttavia è pienamente compatibile con il fatto di giudicare rettamente la intrinseca superiorità dei piaceri più elevati. Sovente l’uomo, per la debolezza del suo carattere, elegge il bene più vicino, sebbene sappia che ha meno valore di un altro bene, e questo tanto nei casi di scelta fra due piaceri del corpo, quanto nei casi in cui c’è da scegliere tra un piacere del corpo e un piacere dello spirito. Sovente indulge nei piaceri dei sensi a detrimento della salute, sebbene sia perfettamente consapevole che la salute è il bene maggiore. Si potrà anche obiettare che molti che iniziano con giovanile entusiasmo per tutto ciò che è nobile, col passare degli anni sprofondano nell’indolenza e nell’egoismo. Ma io non credo che coloro che subiscono questo mutamento, così comune, scelgano volontariamente il tipo più basso di piacere piuttosto che il tipo più elevato. Credo che prima di dedicarsi interamente al primo siano diventati ormai incapaci di godere del secondo. La capacità di nutrire sentimenti più nobili è nella maggior parte dei temperamenti una pianta estremamente delicata, che facilmente è uccisa non solo dalle influenze nocive, ma dalla semplice mancanza di nutrimento; e nella maggior parte dei giovani muore rapidamente, se le occupazioni a cui li riserva la loro posizione sociale ed il tipo di società in cui essa li spinge non sono adatte a mantenere in esercizio quelle elevate capacità. Gli uomini perdono le loro aspirazioni più elevate, così come perdono i loro gusti intellettuali, e ciò perché non hanno il tempo o l’opportunità di abbandonarsi ad essi; e finiscono per darsi ai piaceri inferiori, non perché ponderatamente li preferiscano, ma, o perché sono gli unici a cui abbiano accesso, o perché sono gli unici di cui essi siano ancora in grado di godere. È possibile dubitare che mai una persona, che abbia mantenuto una uguale sensibilità ad entrambe le categorie dei piacere, abbia preferito coscientemente e tranquillamente la categoria più bassa; sebbene molti, in tutte le epoche, siano falliti nel tentativo inefficace di combinare insieme le due categorie. Contro questo verdetto dei soli giudici che siano competenti, concludo che non vi è appello. Sul problema che riguarda quale fra due piaceri sia meglio avere, o quale fra due modi di vita sia più consono ai sentimenti, lasciando da parte la questione degli attributi morali e quella delle conseguenze, bisogna accettare come definitivo il giudizio di coloro che, per il fatto di conoscere entrambi i piaceri o entrambi i modi di vita, sono i meglio qualificati, oppure, qualora non esista un accordo di opinioni, il giudizio della semplice maggioranza fra costoro. E vi è tanto meno luogo ad esitazioni nell’accettare quel giudizio riguardo alla qualità dei piaceri in quanto non vi è altro tribunale a cui far ricorso nemmeno per quel che riguarda il problema della quantità. Quale mezzo abbiamo per determinare quale fra due dolori sia il più acuto, o quale fra due sensazioni di piacere sia la più intensa, fuorché il suffragio generale di coloro a cui entrambi sono familiari? Né i dolori né i piaceri sono omogenei, e il dolore è sempre eterogeneo rispetto al piacere. Come decidere se vale la pena di ottenere un determinato piacere a prezzo di un determinato dolore, se non sulla base dei sentimenti e del giudizio di chi ne è esperto. Pertanto, quando quei sentimenti e quel giudizio affermano che i piaceri derivati dalle facoltà più alte sono preferibili per loro natura, a prescindere dalla questione dell’intensità, rispetto a quegli altri piaceri ai quali è incline la natura animale disgiunta dalle facoltà più elevate, essi hanno diritto a venir trattati a tal riguardo con la stessa considerazione. Mi sono soffermato su questo punto perché è parte essenziale di una concezione perfettamente giusta dell’Utilità o della Felicità, in quanto regola direttiva per la condotta morale. Ma non è in alcun modo una condizione indispensabile per l’accettazione della norma utilitarista, poiché quella norma non riguarda la più grande felicità della persona stessa che agisce, bensì la più grande quantità di felicità nel suo complesso, e se è lecito dubitare che un carattere nobile sia sempre, come conseguenza di tale nobiltà, il più felice, non vi è alcun dubbio possibile che in ogni modo esso rende più felici gli altri e che il mondo in generale trae un beneficio immenso da tutto ciò. L’Utilitarismo dunque può conseguire il suo fine soltanto se la nobiltà del carattere viene universalmente coltivata, e ciò anche se ogni individuo in particolare dovesse trar beneficio soltanto dalla nobiltà degli altri, mentre la propria nobiltà, per quel che riguarda la felicità, dovesse essere calcolata in pura perdita. Ma la semplice enunciazione di un’assurdità come quest’ultima rende superflua ogni confutazione. Secondo il Principio della Massima Felicità, così come è stato spiegato prima, il fine ultimo, in riferimento al quale e in vista del quale ogni altra cosa può essere desiderabile sia se consideriamo il nostro bene sia se consideriamo quello degli altri, consiste in una esistenza priva quanto più è possibile di sofferenze e ricca quanto più è possibile di godimenti sia per quantità che per qualità. Il criterio per giudicare la qualità e la regola per misurarla in rapporto alla quantità sono costituiti dalla preferenza manifestata da coloro che, per le occasioni che hanno avuto di fame esperienza diretta ed inoltre per l’abitudine acquisita all’autosservazione e all’autocoscienza, sono in possesso dei migliori strumenti per effettuare il confronto. E poiché questo è, secondo l’opinione utilitarista, il fine dell’azione umana, necessariamente è anche il criterio della moralità, la quale di conseguenza può venir definita come l’insieme delle regole e dei precetti sulla condotta umana obbedendo ai quali una esistenza come quella che è stata descritta potrebbe essere garantita, nel grado maggiore possibile, a tutta quanta l’umanità; e non solo all’umanità ma, nella misura in cui la natura delle cose lo consente, a tutti gli esseri dotati di sensi nella creazione. Contro questa dottrina tuttavia insorge un’altra categoria di obiettori i quali dichiarano che la felicità, in qualsiasi forma, non può costituire il fine razionale della vita e delle azioni umane perché, in primo luogo, non la si può raggiungere. E sprezzantemente chiedono " Che diritto hai di essere felice? ", domanda che viene ribadita da Carlyle con quest’altra " Che diritto avevi, fino a poco fa, persino di esistere? ". In secondo luogo dichiarano che l’uomo può fare a meno della felicità; che tutti gli esseri umani dotati di nobiltà di carattere lo hanno sentito e non avrebbero potuto raggiungere quella nobiltà se non avessero imparato la lezione dello Entsagen, cioè della rinuncia. E affermano che questa lezione, una volta che sia stata bene appresa e ci si ubbidisca, rappresenta l’inizio e la condizione necessaria per ogni virtù. La prima di queste obiezioni, se fosse ben fondata, andrebbe alle radici del problema, perché, se non può assolutamente esistere alcuna felicità per l’uomo, il raggiungimento di essa non può costituire il fine della moralità o di alcuna condotta razionale. Anche se, persino in quel caso, si potrebbe ancora difendere la teoria utilitarista, giacché con utilità non si vuol dire soltanto la ricerca della felicità, ma anche la prevenzione e l’alleviamento della infelicità, e dunque se il primo di questi due fini è chimerico, tanto maggiore l’importanza e tanto più imperiosa la necessità del secondo, almeno fino a tanto che l’umanità ritenga che vale la pena di vivere e non si rifugi in quell’atto di suicidio collettivo raccomandato da Novalis in determinate condizioni. Tuttavia, quando in siffatto modo si asserisce perentoriamente che è impossibile che la vita umana sia felice, l’asserzione, a meno che non si tratti di un semplice cavillo, è per lo meno un’esagerazione. Se per felicità si intende uno stato di eccitazione continua e intensamente piacevole, è certo evidente che essa è impossibile. Una condizione di godimento sublime non dura che qualche attimo, o, in certi casi e con qualche interruzione, alcune ore o alcuni giorni, ed è un baleno momentaneo di godimento, non una fiamma permanente e continua. Di tutto ciò i filosofi che hanno insegnato che la felicità è il fine della vita erano tanto pienamente consapevoli quanto coloro che li motteggiano. La felicità, così come l’intendevano loro, non era una vita di estasi, ma istanti di estasi in un’esistenza composta di pochi e passeggeri dolori, molti e diversi piaceri, con una prevalenza decisa della parte attiva sulla parte passiva, e tenendo come fondamento di tutto l’idea che non bisogna aspettarsi dalla vita più di quanto essa non sia capace di offrire. Una vita composta di tali cose è sempre sembrata, a coloro che hanno avuto la fortuna di ottenerla, degna del nome di felice. E una simile esistenza anche oggi tocca in sorte a molti per una porzione considerevole della loro vita. L’educazione deplorevole di oggi e i deplorevoli ordinamenti sociali sono gli unici veri ostacoli che si oppongono alla possibilità che quasi tutti la ottengano. Forse gli obiettori potranno dubitare che gli esseri umani, se fosse insegnato loro a ritenere che il fine della vita è la felicità, rimangano soddisfatti di una porzione così modesta di essa. Eppure una gran parte dell’umanità si è accontentata di molto meno. Pare che le principali parti componenti di una vita appagata siano due, e sovente si scopre che l’una o l’altra di esse è da sola sufficiente allo scopo: tranquillità ed eccitazione. Molti scoprono di potersi accontentare di pochissimo piacere, se possono godere di una gran tranquillità, e molti possono accettare una notevole quantità di sofferenza, se vivono una vita estremamente eccitante. E certo non vi è una intrinseca impossibilità nel permettere anche alle grandi masse della popolazione di unire queste due condizioni, dato che esse, lungi dall’essere incompatibili, sono legate in una alleanza naturale, tanto che il prolungamento dell’una costituisce la preparazione per l’altra, anzi stimola il desiderio dell’altra. Solo coloro nei quali l’indolenza è ormai diventata vizio non desiderano l’eccitazione dopo un intervallo di riposo; solo coloro nei quali il bisogno di eccitazione è morboso trovano insipida e noiosa la tranquillità che segue l’attività, invece di trovarla piacevole in proporzione diretta al grado di eccitazione che la ha preceduta. Quando persone che non stanno male, quanto a condizioni esteriori di vita, non trovano nell’esistenza un piacere che basti a rendergliela preziosa, in generale la causa è che costoro non si occupano di nessuno, eccetto che di se stessi. Per coloro che sono privi di affetti pubblici o privati, le cose eccitanti della vita risultano notevolmente limitate, e in ogni caso diminuiscono di valore con l’approssimarsi del momento in cui tutti gli interessi egoistici saranno troncati dalla morte; mentre coloro che lasciano dietro di sé gli oggetti del loro affetto personale, e specialmente coloro che hanno anche coltivato un sentimento fraterno per gli interessi collettivi dell’umanità conservano fino alla vigilia della morte un interesse per la vita tanto vivace quanto lo era nel pieno vigore della loro giovinezza e della loro salute. Dopo l’egoismo, la causa principale dell’insoddisfazione nella vita è il fatto di non coltivare il proprio spirito. Una mente coltivata - e non voglio dire la mente di un filosofo, ma una mente qualsiasi, per la quale le sorgenti della conoscenza si siano spalancate e alla quale sia stato insegnato come servirsi, in misura anche modesta, delle proprie facoltà - trova in tutto ciò che la circonda fonti di inesauribile interesse: negli naturali, nelle realizzazioni artistiche, nell’immaginazione poetica, negli eventi storici, nelle condizioni dell’umanità presente e passata e nelle prospettive del futuro. Certo è possibile diventare indifferenti a tutto ciò, e senza perfino che se ne sia esaurita la millesima parte, ma soltanto qualora uno non abbia avuto fin da principio alcun interesse morale o umano per tali cose, e abbia cercato in esse soltanto l’appagamento della propria curiosità. Orbene, non vi è assolutamente alcuna ragione, nella natura delle cose, per cui una quantità di cultura dello spirito sufficiente a far nascere una curiosità intelligente per questi oggetti della contemplazione non debba essere il retaggio di ogni individuo nato in un paese civile. E ugualmente non vi è assolutamente alcuna intrinseca necessità che un individuo qualsivoglia sia egoisticamente preoccupato solo di se stesso, senza sentimenti o preoccupazioni eccetto quelli centrati sulla propria miserabile individualità. Persino al giorno d’oggi un modo di vivere ben superiore a questo è cosa sufficientemente comune perché si abbia ampia garanzia di quello che il genere umano potrebbe diventare. Affetti privati schietti ed un sincero interesse per il bene di tutti sono sentimenti possibili, anche se in misura ineguale, per ogni essere umano che sia stato allevato nel modo giusto. In un mondo in cui vi sono tanti oggetti possibili di interesse, tante possibilità di godimento e pure tante cose da correggere e migliorare, un individuo qualsiasi, purché sia dotato di un simile modesto bagaglio di requisiti morali ed intellettuali, può vivere un’esistenza che può ben dirsi invidiabile; e a meno che ad una persona come questa non venga negata la libertà di servirsi di quelle sorgenti della felicità che sono alla sua portata, o per l’esistenza di cattive leggi, o perché è soggetta alla volontà altrui, essa non mancherà di ottenere questa esistenza invidiabile, se riuscirà a sfuggire ai veri mali della vita, e cioè alle grandi fonti della sofferenza fisica e mentale, come la povertà, la malattia, la crudeltà, la bassezza o la perdita prematura degli oggetti del proprio affetto. L’accento principale del problema, dunque, cade sulla lotta contro queste calamità, alle quali si ha raramente la fortuna di sfuggire del tutto; e a questa situazione, allo stato presente delle cose, non si può porre rimedio, anzi sovente non si può mitigarla in modo sostanziale. E tuttavia nessuno, le cui opinioni meritino appena appena di essere prese in considerazione, può mettere in dubbio che la maggior parte degli incontestabili grandi mali del mondo siano di per se stessi eliminabili, e che alla fine, se le condizioni umane continueranno a progredire, verranno contenuti entro stretti limiti. La povertà, intesa in qualsiasi senso sia causa di infelicità, potrebbe venire interamente eliminata dalla saggezza della società, unita al buon senso e alla previdenza dell’individuo. Persino la malattia, il più intrattabile dei nostri nemici, può venir indefinitamente ridotta in dimensioni grazie ad una retta educazione fisica e morale e grazie all’opportuno controllo degli influssi nocivi; e nel frattempo il progresso della scienza fa sperare per il futuro in conquiste ancora più dirette su questo detestabile avversario. Ogni progresso in quella direzione diminuisce non solo la probabilità che la nostra vita venga troncata innanzi tempo, ma anche la probabilità che veniamo privati, cosa assai più preoccupante, di coloro ai quali la nostra felicità è inestricabilmente legata. Per quel che riguarda le vicissitudini della fortuna e le altre delusioni connesse con le circostanze esteriori, esse sono soprattutto l’effetto di gravi imprudenze, di desideri sregolati o di istituzioni sociali cattive o semplicemente imperfette. In breve, tutte le fonti maggiori di sofferenza umana possono essere vinte in grande misura, e molte di esse quasi interamente, dalle cure e dagli sforzi dell’uomo e, sebbene la loro eliminazione sia un processo penosamente lento - sebbene una lunga successione di generazioni debba perire sulla breccia prima che la conquista sia conchiusa e prima che questo nostro mondo diventi quello che facilmente potrebbe divenire se non mancassero buona volontà e conoscenza - tuttavia ogni spirito che sia abbastanza intelligente e generoso da dare il suo contributo, per quanto piccolo e poco appariscente, a questo sforzo, trarrà un nobile godimento dalla lotta stessa, godimento di cui non consentirebbe a privarsi per quanto allettato dalle seduzioni dell’appagamento egoistico. E questo ci conduce ad una giusta valutazione di quanto viene asserito dai nostri avversari riguardo alla possibilità, anzi all’obbligo, di imparare a fare a meno della felicità. Senza alcun dubbio è possibile fare a meno della felicità; è così che senza volerlo vivono i diciannove ventesimi dell’umanità, persino in quelle parti del mondo contemporaneo che sono meno profondamente immerse nella barbarie; e sovente debbono vivere così, ma volontariamente, l’eroe o il martire, per ottenere qualcosa che per loro ha valore maggiore che la felicità individuale. Ma questo qualcosa, che cos’è se non è la felicità degli altri, oppure alcuni dei requisiti di quella felicità? È cosa nobile essere capace di rinunciare interamente alla propria porzione di felicità o alla probabilità di ottenerla; ma, dopo tutto, bisogna che questo sacrificio sia compiuto in vista dì un qualche scopo, non è esso stesso quello scopo. E se ci rispondono che lo scopo non è la felicità, bensì la virtù, che è cosa migliore della felicità, allora chiedo: l’eroe o il martire rinuncerebbero alla felicità, se non credessero di ottenere in tal modo che gli altri vengano esentati dalla necessità di simili sacrifici? Rinuncerebbero se pensassero che la loro rinunzia alla propria felicità non potrà avere altro risultato per i loro simili che quello di far loro condividere la medesima sorte, riducendo anch’essi alla condizione di chi ha rinunciato alla felicità? Onore a coloro che per abnegazione rinunciano al loro personale godimento della vita, se mediante tale sacrificio possono contribuire degnamente ad aumentare la somma della felicità nel mondo; ma colui che lo fa, o dichiara di farlo, per una qualsiasi altra ragione che questa, non merita di essere ammirato più di quanto non lo meriti lo stilita sulla sua colonna. Potrà essere la prova incoraggiante di quello che l’uomo può fare, ma sicuramente non potrà servire di esempio di quello che deve fare. Anche se soltanto quando le condizioni dell’organizzazione del mondo sono imperfettissime il modo migliore per servire alla felicità degli altri consiste per chiunque nel sacrificare totalmente la propria felicità, tuttavia sono pienamente d’accordo che, fintantoché il mondo si trova in questa situazione imperfetta, l’esser pronto a compiere un tale sacrificio è la virtù più alta che un uomo possa avere. E posso aggiungere che, mentre perdurano queste condizioni nel mondo, per paradossale che l’affermazione possa sembrare, la capacità di vivere facendo consapevolmente a meno della felicità offre le maggiori possibilità di poter ottenere tanta felicità quanta è possibile raggiungere. Giacché nulla, eccetto quella consapevolezza, può sollevare un individuo al di sopra delle vicissitudini della vita con il fargli sentire che, se anche il fato e la fortuna dovessero accanirglisi contro, non hanno il potere di soggiogarlo. Una volta che questo sentimento è nato, lo libera da una eccessiva ansietà sui mali della vita, e lo rende capace, così come avvenne a molti stoici nei periodi peggiori dell’Impero Romano, di coltivare in tutta tranquillità quelle fonti di soddisfazione che gli sono accessibili, senza preoccuparsi dell’incertezza sulla loro durata più che della loro inevitabile fine. Nel frattempo gli utilitaristi non devono cessare di rivendicare la morale del dono di se stessi come una proprietà che appartiene a loro a tanto buon diritto quanto agli Stoici e ai Transcendentalisti. La morale utilitarista riconosce che l’uomo è capace di fare sacrificio del proprio bene più grande per il bene degli altri. Rifiuta soltanto di accettare che il sacrificio sia di per se stesso un bene. Considera un sacrificio che non aumenta o che non tende ad aumentare la somma totale della felicità un sacrificio perduto. L’unica rinuncia di sé che approva, è il dono di sé alla felicità degli altri o a qualche mezzo per ottenere quella felicità; e questo sia in considerazione dell’umanità presa collettivamente, sia degli individui, ma entro i limiti che gli interessi collettivi dell’umanità impongono. Devo di nuovo ripetere quello che gli avversari dell’utilitarismo hanno raramente l’onestà di riconoscere, e cioè che la felicità che costituisce la norma utilitarista per il comportamento morale giusto non è la felicità singola di chi agisce, bensì la felicità di tutti gli interessati. E tra la sua felicità personale e quella degli altri, l’utilitarismo richiede al singolo individuo di essere tanto rigorosamente imparziale, quanto uno spettatore benevolo e disinteressato. Nella regola d’oro di Gesù di Nazaret, ritroviamo nella sua interezza lo spirito dell’etica utilitarista. Fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi stessi e amare il prossimo come noi stessi costituiscono della moralità utilitarista come mezzo per avvicinarsi il più possibile a questo ideale, la dottrina dell’utilità vorrebbe prescrivere quanto segue. In primo luogo il sistema legislativo e l’organizzazione sociale dovrebbero far sì che la felicità o l’interesse (come praticamente lo si può chiamare) di ogni singolo individuo armonizzassero quanto più è possibile con l’interesse generale. In secondo luogo l’educazione e l’opinione corrente, le quali esercitano un potere così grande sul carattere umano, dovrebbero esercitare quel potere per fissare una associazione indissolubile nella mente di ogni individuo tra la sua felicità singola ed il bene generale, e in special modo tra la sua felicità singola e l’abitudine a comportarsi, negativamente o positivamente, in quel modo che è dettato dalla preoccupazione per la felicità universale, cosicché non soltanto sia impossibile per l’individuo concepire la possibilità di una felicità personale che però vada di pari passo con un comportamento che si oppone al bene generale, ma per di più l’impulso diretto tendente a promuovere il bene generale diventi in ogni individuo uno dei normali motivi per agire, e i sentimenti connessi a quell’impulso abbiano una parte rilevante nella vita dei sentimenti di ogni essere umano. Se coloro che attaccano la morale utilitarista se la rappresentassero in questi che sono i suoi tratti reali, quali aspetti commendabili in qualsiasi altra morale potrebbero affermare che sono invece assenti nell’Utilitarismo? Quali più meravigliosi e più sublimi sviluppi della natura umana potrebbero immaginare che un altro qualsiasi sistema etico incoraggerebbe? A quali molle per l’azione potrebbero tali sistemi appoggiarsi nel mettere in esecuzione le loro direttive, sui quali invece il sistema utilitarista non può contare? Gli oppositori dell’Utilitarismo non possono venir accusati di dipingerlo sempre sotto una luce sfavorevole. Al contrario, quelli fra di loro che hanno una idea pressappoco giusta del suo carattere disinteressato, rimproverano a volte alla sua norma il fatto di essere troppo elevata per l’umanità. Costoro affermano che è domandare troppo il richiedere che la gente sia indotta sempre ad agire dal desiderio di promuovere l’interesse generale della società. Ma questo vuol dire sbagliarsi sul significato stesso della norma morale e confondere la regola per l’azione con il motivo per l’azione. È compito dell’etica di dirci quali siano i nostri doveri e quale sia il criterio mediante li quale possiamo riconoscerli; ma nessun sistema etico richiede che il solo motivo per tutto quello che facciamo sia il sentimento del dovere; al contrario, novantanove su cento di tutte le nostre azioni sono compiute per altri motivi, ed è giusto che lo siano, a meno che la regola del dovere non le condanni. Ed è tanto più ingiusto, per l’Utilitarismo, che questo malinteso in particolare serva di base per sollevargli contro delle obiezioni, in quanto i moralisti utilitaristi sono andati molto al di là di quasi tutti gli altri moralisti nell’affermare che il motivo di un’azione non ha nulla a che vedere con la moralità di quella azione. Sebbene abbia a che vedere, e molto, con il valore della persona che agisce. Colui che salva un proprio simile dall’annegare, fa quello che è moralmente giusto fare, sia se il motivo è il senso del dovere, sia se il motivo è la speranza di ricevere una ricompensa per i suoi sforzi; colui che tradisce un amico che si fida di lui, è colpevole di un delitto anche se il suo obiettivo era quello di aiutare un altro amico verso il quale aveva una obbligazione più grande. Ma per parlare soltanto di quelle azioni che sono eseguite per il motivo del dovere e in obbedienza diretta ad un principio, non si tratterebbe altro che di un fraintendimento se si concepisse che il modo di pensare utilitarista presup pone che la gente debba necessariamente fissare la propria attenzione su un’idea così estremamente generica come quella del mondo e della società in generale. La grande maggioranza delle buone azioni non sono destinate a beneficio del mondo, bensì a beneficio di particolari individui, di cui il bene dei mondo è composto; e i pensieri del più virtuoso degli uomini non devono andare, in tali occasioni, oltre alle particolari persone interessate, eccetto nella misura in cui è necessario assicurarsi che, nel fare del bene a queste, egli non viola i diritti di nessun altro - cioè a dire, non va contro a quello che un altro è autorizzato e ha diritto di aspettarsi. La moltiplicazione della felicità è, secondo l’etica utilitaristica, il fine della virtù: d’altra parte (eccettoché per una persona su mille) le occasioni in cui una persona ha il potere di far ciò su vasta scala, o in altre parole ha la possibilità di essere un benefattore pubblico, sono affatto eccezionali; e soltanto in queste occasioni gli si richiede di prendere in considerazione l’utilità pubblica. In ogni altro caso, tutto quello di cui deve preoccuparsi, è l’utilità privata, l’interesse o la felicità di alcune poche persone. Soltanto quelle persone le cui azioni estendono la loro influenza alla società nel suo insieme, debbono in generale preoccuparsi di un obiettivo così vasto. È vero che quando si tratta di astenersi da qualche azione - azioni che ci si trattiene dal compiere per considerazioni morali, anche se in quel particolare caso le conseguenze potrebbero essere positive - sarebbe cosa indegna di una persona intelligente non rendersi chiaramente conto che quell’azione appartiene ad una categoria di azioni che se fossero generalmente eseguite, sarebbero in generale dannose, e che questa è la ragione per cui si ha l’obbligo di astenersene. E tuttavia il riguardo per l’interesse pubblico che è implicito in quel riconoscimento non è più grande di quello che ogni altro sistema morale richiede; giacché tutti quanti questi sistemi prescrivono di astenersi da tutto ciò che è chiaramente pernicioso per la società. Le stesse osservazioni ci permettono di disfarci di un’altra critica alla dottrina dell’utilità, fondata su un fraintendimento ancor più grossolano di quale sia il fine di un criterio morale e di quello che è il vero significato delle parole " moralmente giusto " e " moralmente non giusto ". Viene sovente affermato che l’Utilitarismo rende freddi e indifferenti, che esso gela i sentimenti morali verso gli altri individui, che spinge a prospettarsi soltanto la considerazione arida e inumana delle conseguenze delle azioni senza che si includano nella valutazione morale le qualità da cui quelle azioni provengono. Se con tale asserzione si vuol dire che l’utilitarista non lascia che il proprio giudizio sul fatto se un’azione sia moralmente giusta o no venga influenzato dall’opinione che egli ha delle qualità della persona che compie quella azione, allora la critica non dovrebbe essere diretta contro l’utilitarismo in particolare, ma contro il fatto stesso di avere un criterio morale; giacché nessun criterio etico che si conosca arriva alla decisione che una azione è buona o cattiva per il fatto che è compiuta da un uomo buono o cattivo, e ancor meno per il fatto che è compiuta da una persona affabile o coraggiosa o indulgente, oppure tutto il contrario. Queste considerazioni hanno importanza non per la valutazione delle azioni, ma per la valutazione delle persone, e non vi è nulla nella teoria utililitaristica che sia incompatibile con il fatto che esistono in una persona altri oggetti per il nostro interesse oltre alla questione se le sue azioni siano giuste o no. Gli Stoici, con quei paradossali abusi di lingua che erano parte del loro sistema e mediante i quali essi tentavano di sollevarsi al di sopra di ogni preoccupazione che non fosse connessa con la virtù, amavano dire che chi ha la virtù ha tutto, che costui, e solo costui, è ricco, è bello, è re. La dottrina utilitarista non avanza pretese di questo genere per l’uomo virtuoso. Gli utilitaristi si rendono ben conto che oltre alla virtù esistono altre qualità e altre cose il cui possesso è desiderabile, ed essi sono pienamente disposti a riconoscere a tutto ciò il suo intero valore. Per di più, sono consapevoli che un’azione moralmente giusta non indica necessariamente un carattere virtuoso, e che azioni che sono biasimevoli procedono sovente da qualità che a buon diritto possono venir lodate. Quando ciò si verifichi in un caso particolare, gli utilitaristi modificano la loro valutazione, ma certamente non la valutazione dell’atto, bensì di chi agisce. Convengo ciononostante che essi sono dell’opinione che a lungo andare la migliore prova di un buon carattere è data dalle buone azioni, e che essi si rifiutano categoricamente dì considerare come buona una disposizione mentale la cui tendenza predominante sia quella di causare una cattiva condotta. Questo li rende poco popolari presso molti, ma questa impopolarità essi la debbono condividere con chiunque voglia considerare con serietà la distinzione tra moralmente giusto e moralmente non giusto, e questa censura non è una di quelle che un utilitarista coscienzioso deve essere troppo ansioso di respingere. Se con questa critica si vuol semplicemente dire che molti utilitaristi giudicano la moralità delle azioni, così come viene misurata mediante il criterio utilitarista, in modo troppo limitativo, e che non danno il giusto peso agli altri aspetti belli del carattere che contribuiscono a fare di un essere umano una persona da amare e da ammirare, allora si può anche accettare l’obiezione. Gli utilitaristi che hanno coltivato i loro sentimenti morali ma non la loro simpatia umana o la loro sensibilità artistica cadono in questo errore, ma così come vi cadono tutti gli altri moralisti che si trovano nelle stesse condizioni. E quello che si può dire a giustificazione di questi ultimi, può esser detto ugualmente bene a favore degli utilitaristi, e cioè che se errore deve esserci, è meglio che sia questo errore piuttosto che quello opposto. In realtà si può affermare che fra gli utilitaristi tanto quanto fra gli aderenti ad altri sistemi si trovano tutti i gradi possibili di rigidità e di elasticità nell’impiego del proprio criterio: alcuni sono rigorosi in modo addirittura puritano, mentre altri sono tanto indulgenti quanto il peccatore o chi fa del sentimentalismo potrebbero desiderare. Ma, tutto considerato, sarebbe strano se una dottrina che sottolinea quelli che sono gli interessi dell’umanità nel reprimere e nel prevenire quei tipi di comportamento che violano la legge morale si mostrasse meno interessata di quanto non lo siano le altre dottrine nel convincere la coscienza sociale ad impiegare sanzioni contro tali violazioni. È vero che la questione su che cosa costituisca una violazione della legge morale è una di quelle sulle quali è facile che di quando in quando nascano disaccordi fra persone che accettano criteri morali diversi. Ma il disaccordo sulle questioni morali non è stato introdotto nel mondo dall’Utilitarismo per primo, e anzi questa dottrina offre un metodo per risolvere tali disaccordi, metodo che, anche se non è sempre facile, è in ogni caso concreto e tangibile. Potrà essere cosa non inutile soffermare l’attenzione su alcuni altri fraintendimenti più comuni dell’etica utilitarista, non esclusi quelli che sono così evidenti e così grossolani che sembrerebbe impossibile che una persona onesta ed intelligente ne fosse vittima. Giacché vi sono persone, e a volte persone con notevoli doti intellettuali, che si preoccupano talmente poco di intendere quale sia la direzione generale di una qualsiasi opinione contro la quale si trovano ad essere prevenuti, ed inoltre si è in genere talmente poco consapevoli che questa ignoranza volontaria è un difetto, che continuamente succede di imbattersi nei più grossolani equivoci sulle dottrine etiche anche nelle ponderate opere di scrittori che pure hanno le maggiori pretese sia come filosofi che come persone di alti principi. Non è cosa infrequente di sentir tuonare contro la dottrina utilitarista come dottrina senza Dio. Se è necessario che si risponda a quello che altro non è che un presupposto gratuito, possiamo dire che la questione dipende da quale idea ci siamo formati del carattere morale della Divinità. Se è vero che Dio desidera più che ogni altra cosa la felicità delle sue creature, e che questo era il suo scopo nel crearle, allora non solo quella dell’utilità non è una dottrina senza Dio, ma è anzi più profondamente religiosa di qualsiasi altra. Se poi si vuol dire che l’Utilitarismo non riconosce la volontà rivelata da Dio come legge suprema per la morale, risponderò che un utilitarista che crede nella perfetta bontà e saggezza di Dio, necessariamente crede che tutto ciò che Dio ha ritenuto conveniente rivelare a proposito dell’etica deve appagare le esigenze dell’utilità nel più totale dei modi. Ma altri filosofi, e non solo gli utilitaristi, hanno ritenuto che la rivelazione cristiana ha avuto il compito, per cui è eminentemente adatta, di introdurre nel cuore e nella mente degli uomini uno spirito che dovrebbe permettere all’umanità di trovare da sola ciò che è moralmente giusto, e di spingerla, una volta che lo ha trovato, ad eseguirlo; mentre invece non ha avuto così segnatamente il compito di informarla su ciò che è giusto, se non in modo molto generico, ragione per cui abbiamo bisogno di una dottrina etica accuratamente sviluppata per interpretare la volontà di Dio. Non val la pena qui di discutere se questa opinione sia esatta o no, dato che l’aiuto che la religione, naturale o rivelata, può dare alla ricerca etica è a completa disposizione tanto del moralista utilitarista, quanto di ogni altro. L’utilitarista può servirsene come testimonianza di Dio che una data linea di azione è utile o dannosa, mentre un altro, e ad altrettanto buon diritto, può servirsene come indicazione dell’esistenza di una legge trascendentale che non ha connessione con l’utilità o con la felicità. E ancora, sovente si stigmatizza sommariamente la dottrina dell’Utilità come una dottrina immorale dandole il nome di dottrina dell’Opportuno, e approfittando dell’impiego comune che quel termine ha in contrapposizione a Principio. Ma l’opportuno, nel senso in cui lo si contrappone al Giusto, vuol dire in generale quello che conviene all’interesse particolare della persona stessa che agisce; come quando un ministro sacrifica l’interesse del suo paese per mantenersi al potere. Quando vuol dire qualcosa di meno negativo, vuol dire quello che è opportuno per un obiettivo immediato, per uno scopo temporaneo, ma tale che viola una regola, l’obbedienza alla quale è opportuna in misura molto superiore. L’Opportuno, in questo senso, lungi dall’essere la stessa cosa che l’utile, è in effetti una sottospecie del nocivo. Così, sarebbe sovente opportuno, conveniente, dire una menzogna al fine di superare un imbarazzo momentaneo, o al fine di raggiungere un obiettivo immediatamente utile a noi stessi o ad altri. Ma in quanto il coltivare in noi stessi una puntigliosa sensibilità alla veracità è una delle cose più utili fra quelle a cui la nostra condotta possa servire, e invece l’indebolimento di quel sentimento una delle più nocive; e in quanto ogni deviazione dalla verità, sia pur involontaria. contribuisce in qualche modo a indebolire la fiducia che la parola umana può ispirare, fiducia che è il sostegno principale di quanto benessere sociale esiste oggi, non solo, ma addirittura si può dire che la civiltà, la virtù, tuttociò da cui la felicità umana dipende, vengono frenate, più che da qualsiasi altra cosa, proprio dal fatto che questa fiducia non è completa; per tutte queste ragioni, mi sembra che violare, per un vantaggio immediato, una regola di tale trascendente opportunità sia inopportuno, e che chi, per un vantaggio personale o di qualcun altro, fa quanto sta in suo potere per privare l’umanità di un tale bene e per infliggere ad essa un male simile, quale appunto è il poter dipendere in maggiore o minore misura dalla parola gli uni degli altri, costui agisce in effetti come il peggiore nemico dell’umanità. E tuttavia tutti i moralisti riconoscono che persino questa regola, per quanto sacra, può ammettere eccezioni. La principale fra queste è quando possiamo salvare qualcuno (soprattutto se si tratta di un altro e non di noi stessi) da un danno grave ed immeritato, se nascondiamo un certo fatto (per esempio se celiamo un’informazione ad un malfattore o una cattiva notizia ad una persona gravemente ammalata), e non possiamo nascondere quel fatto eccetto che con il negarlo. Ma affinché questa eccezione non venga estesa oltre lo stretto necessario ed affinché essa indebolisca il meno possibile la fiducia nella veracità, è necessario che l’eccezione venga ben identificata e, se è possibile, i suoi limiti siano definiti. Se il principio dell’utilità deve servire a qualche cosa, è appunto nel saper soppesare fra di loro queste utilità contrastanti, e nel segnalare quali siano le aree in cui l’una o l’altra abbiano maggior peso. E ancora, i sostenitori dell’utilitarismo si trovano sovente a dover rispondere ad obiezioni come la seguente: che non c’è tempo sufficiente, prima dell’azione, per calcolare e soppesare gli effetti che una linea di azione avrà sulla felicità generale. È esattamente come se si dicesse che è impossibile imporsi una condotta secondo i principi cristiani, perché non c’è tempo, in ognuna delle occasioni in cui è necessario agire, di leggere da un capo all’altro l’Antico e il Nuovo Testamento. La risposta a questa obiezione è che, al contrario, di tempo ce ne è stato più che a sufficienza, dato che in esso dobbiamo includere l’intera durata della specie umana. Durante tutto questo tempo il genere umano ha appreso mediante la esperienza quali siano le tendenze delle varie azioni; ed è da questa esperienza che dipendono non solo tutta quanta l’avvedutezza, ma anche tutta quanta la moralità della vita. Si parla come se l’inizio di questo ciclo di esperienze fosse stato rinviato fino al momento attuale, o come se al momento in cui qualcuno si sentisse tentato di interferire nella proprietà o nella vita di un altro, dovesse cominciare a chiedersi per la prima volta se l’omicidio e il furto rechino pregiudizio alla felicità umana. Persino se fosse così, non credo che quel qualcuno troverebbe il problema molto imbarazzante da risolvere; e in ogni caso la questione è già stata risolta per lui. È veramente un’idea bizzarra supporre che l’umanità possa trovarsi d’accordo nel considerare l’utilità come il criterio per la moralità, continuando ciò nondimeno a essere in completo disaccordo su che cosa sia utile; e senza preoccuparsi in alcun modo di far sì che le sue idee in proposito vengano insegnate ai giovani e imposte dalle leggi e dall’opinione pubblica. Non è difficile dimostrare che qualsiasi criterio etico funzionerebbe male, se si supponesse che insieme ad esso regni l’imbecillità universale; mentre invece, secondo una qualsiasi altra ipotesi meno radicale, all’ora presente l’umanità dovrebbe aver acquisito opinioni ben determinate riguardo agli effetti che certe azioni hanno sulla sua felicità; e le opinioni che ci sono state in tal modo trasmesse sono le regole morali per il popolo, come pure per il filosofo, fino a che costui non sia riuscito a trovar di meglio. Che i filosofi anche oggigiorno possano facilmente trovare di meglio, rispetto a molte questioni, che il codice etico ricevuto non sia in alcun modo di origine divina, e che l’umanità abbia ancora molto da imparare sugli effetti delle azioni sulla felicità generale, queste sono cose che io ammetto, anzi che io sostengo fermamente. I corollari del principio di utilità, così come i precetti di ogni arte pratica, ammettono un infinito miglioramento, e quando lo spirito umano è in una fase di progresso, questi miglioramenti hanno continuamente luogo. Ma considerare le regole della morale come perfettibili, è una cosa; tralasciare interamente le generalizzazioni intermedie, e sforzarsi di controllare ogni singola azione direttamente per mezzo del primo principio, è un’altra. È un’idea curiosa quella che il riconoscimento di un primo principio debba essere incompatibile con l’ammissione di principi secondari. Quando forniamo ad un viaggiatore informazioni su dove si trovi la sua destinazione finale, non gli proibiamo per ciò stesso di servirsi per strada delle indicazioni del terreno e dei cartelli indicatori. Quando sosteniamo che la felicità è il fine e lo scopo della morale, non intendiamo dire che dunque non si deve tracciare l’itinerario verso quel traguardo, o che non si deve consigliare chi vada in quella direzione di prendere un cammino piuttosto che un altro. Bisognerebbe veramente cessare di dire, su questo soggetto, sciocchezze tali che non si accetterebbe né di dire, né di ascoltare, a proposito di altre questioni di interesse pratico. Nessuno pretenderebbe di dimostrare che l’arte della navigazione non è fondata sull’astronomia, per il fatto che i marinai non possono attardarsi a fare tutti i calcoli dell’Almanacco Nautico. Dato che sono esseri razionali, essi salpano con i calcoli già tutti fatti, così come tutti gli esseri razionali salpano sul mare della vita con le idee già formate sui problemi comuni di che cosa sia moralmente giusto e che cosa non lo sia, e ugualmente su molte altre questioni, più difficili ancora, su ciò che sia saggio e ciò che sia stolto. E fintantoché la preveggenza rimarrà una delle qualità umane, si può presumere che essi continueranno a comportarsi in quel modo. Qualunque sia il principio fondamentale della morale che adottiamo, abbiamo bisogno di principi subordinati per applicarlo; e dato che la necessità di aver questi principi subordinati è cosa comune a tutti i sistemi, non se ne può ricavare una prova contro un sistema in particolare. Ma pretendere di ragionare seriamente come se non ci potessero essere tali principi secondari, e come se l’umanità fosse rimasta fino ad ora senza trarre conclusioni generali dall’esperienza della vita umana, e come se dovesse continuare per sempre allo stesso modo, costituisce una delle cime più alte dell’assurdo che siano state mai raggiunte in una controversia filosofica. Il resto delle critiche tradizionali contro l’Utilitarismo consiste soprattutto nell’addossargli le comuni debolezze della natura umana e le difficoltà generali che sconcertano la persona coscienziosa nell’orientarsi attraverso la vita. Ci viene detto che un utilitarista sarà incline a considerare il suo caso particolare come una eccezione alle regole morali, e che quando egli sia sotto il dominio della tentazione, sarà pronto a trovare nella violazione di una regola una utilità maggiore che nella sua osservanza. Ma forse che l’Utilitarismo è l’unica dottrina che è in grado di fornirci una scusa per una mala azione ed un mezzo per ingannare la nostra propria coscienza? Queste scuse e questi mezzi sono forniti in grande abbondanza da tutte quante le dottrine che ammettono il fatto che nelle questioni morali esistono considerazioni opposte; e tutte le dottrine che sono state ritenute vere da persone di sano intendimento sono così fatte. Non è colpa di alcuna dottrina, bensì della naturale complessità degli affari umani, se le regole della condotta non possono venir formulate in modo da non comportare eccezioni, e se è pressoché impossibile stabilire con sicurezza se un dato tipo di azione sia sempre obbligatorio o sempre condannabile. Non esiste dottrina etica che non temperi la rigidità delle sue leggi con il permettere a chi agisce, e sotto la sua responsabilità morale, un certo spazio per far posto alle particolari esigenze delle circostanze; e non appena lo spiraglio di questa concessione viene aperto, qualunque sia quella dottrina, vi si infiltrano l’insincerità con se stessi e l’arte del cavillare disonestamente. Non esiste un sistema morale nel quale non sorgano casi lampanti di obblighi diversi in conflitto. Queste sono le vere difficoltà, i nodi ingarbugliati sia per la teoria etica che per dirigere coscienziosamente la condotta pratica. In pratica essi vengono risolti più o meno felicemente a seconda della intelligenza e della virtù dell’individuo; ma come si potrebbe pretendere che una persona sia meno qualificata nel risolvere questi problemi per il fatto di sostenere un criterio ultimo tale per cui gli si possono ugualmente riferire diritti e doveri opposti? Se la fonte ultima dei doveri morali è l’utilità, allora si potrà chiamare l’utilità a decidere fra di essi quando le loro istanze si trovino ad essere incompatibili. Sebbene applicare il criterio sia una operazione non scevra di difficoltà, è sempre meglio avere questo criterio che nessun criterio. Negli altri sistemi invece, dato che tutte le leggi morali pretendono di avere una autorità indipendente, non vi è un arbitro comune che sia qualificato ad intervenire fra di esse: le pretese di ognuna di queste leggi alla precedenza sulle altre si fondano su ragionamenti che sono poco più che cavilli sofistici, e se non venissero risolti, come generalmente in effetti lo sono, per l’influenza inconfessata di considerazioni di utilità, esse lascerebbero facile gioco all’azione di desideri e parzialità individuali. Dobbiamo tenere a mente che soltanto in questi casi di conflitto fra principi secondari, è indispensabile appellarsi ai primi principi. Non esistono casi di obbligazione morale in cui non sia coinvolto un qualche principio secondario. E se si tratta di uno solo di questi principi secondari, solo raramente vi sarà, nella mente di una persona che riconosca questo stesso principio, un dubbio effettivo sulla sua identità.

 

(John Stuart Mill)