Nolte, Lo storico deve appropriarsi del passato

E. Nolte allievo di Heidegger, storico tedesco, docente presso numerose università, molto discusso per l’originalità e l’audacia dei suoi schemi interpretativi della storia del nostro secolo, autore di importanti opere sul fascismo, è noto soprattutto per essere stato la causa di una famosa Historikerstreit (1986) e per essere l’autore di Nazionalsocialismo e bolscevismo (1987).

L’argomento dei crimini nazisti viene affrontato da Nolte in un modo che lo porta ad imbattersi in tematiche tipicamente filosofiche. Secondo lui un “passato che non vuole passare” deve essere considerato dallo storico come un assurdo, come se un episodio della storia appartenesse ad un’altra dimensione. Se qualcosa è avvenuto nella storia, il compito dello storico è di comprenderlo e quindi in qualche modo di appropriarsene, anche se si tratta dei delitti del nazismo. La lettura è tratta dall’intervento di Nolte sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, che ha dato origine all’Historikerstreit.

 

 E. Nolte, Il passato che non vuole passare

 

Con “passato che non vuole passare” si può intendere soltanto il passato nazionalsocialista dei tedeschi o dell Germania. Il tema implica la tesi che ogni passato di solito passa, e che in questo non passare c’è qualcosa di affatto eccezionale. D’altra parte il normale passare del passato non va inteso come scomparsa. Nei libri di storia si continua a discutere dell’età napoleonica o della classicità augustea; ma questi passati hanno perso, ovviamente, l’urgenza che avevano per i contemporanei, e proprio per questo possono essere affidati agli storici. Invece, a quanto pare, il passato nazionalsocialista (come ha rilevato di recente Hermann Lübbel) non soggiace a questo processo di dissoluzione e di indebolimento, ma sembra, al contrario, diventare sempre piú vivo e vigoroso: non come modello bensí come spauracchio, come passato che si pone come presente, o che pende sul presente come una mannaia.[...]

È una singolare lacuna della letteratura sul nazionalsocialismo, quella di non sapere o di non voler prendere atto della misura in cui tutto ciò che i nazionalsocialisti fecero in seguito, con la sola eccezione della tecnica delle camere a gas, era già descritto in una vasta letteratura dei primi anni venti: deportazioni e fucilazioni in massa, torture, campi di concentramento, eliminazione di interi gruppi secondo criteri puramente oggettivi, ordini di sterminio di milioni di uomini innocenti ma ritenuti “nemici”.

È probabile che molti di questi racconti siano esagerati. È certo che anche il “terrore bianco” compí azioni orrende, anche se nel suo àmbito non potevano esserci analogie con la postulata “eliminazione della borghesia”. Tuttavia deve essere lecito, anzi è inevitabile, porre il seguente interrogativo: non compí Hitler, non compirono i nazionalsocialisti un’azione “asiatica” forse soltanto perché consideravano se stessi e i propri simili vittime potenziali o effettive di un’azione “asiatica”? L’“Arcipelago Gulag” non precedette [war ursprünglicher] Auschwitz? Non fu lo “sterminio di classe” dei bolscevichi il prius logico e fattuale dello “sterminio di razza” dei nazionalsocialisti? Le azioni piú misteriose di Hitler non vanno spiegate anche col fatto che egli non aveva dimenticato la “gabbia dei topi”? Le radici di Auschwitz non stavano in un passato che non voleva passare?

Non occorre aver letto il libriccino, introvabile, di Melgunov per porre queste domande. Ma sono domande che si ha timore di sollevare e anch’io per lungo tempo ho esitato a formularle. Sono considerate tesi di polemica anticomunista o prodotti della guerra fredda. Non sono nemmeno gradite agli specialisti, costretti entro problematiche sempre piú anguste. Esse si fondano però su verità semplici. Ignorare deliberatamente certe verità può avere ragioni morali, ma è una violazione dell’etica scientifica.

[...]

Chi considera questa storia non come mitologema, ma osservandola nei suoi nessi essenziali, giungerà a una conclusione centrale: se essa, pur con tutta la sua oscurità e atrocità, ma anche con il suo aspetto di sconcertante novità, di cui va dato atto ai suoi agenti, ha avuto un senso per i discendenti, tale senso deve consistere allora nella liberazione dalla tirannia del pensiero collettivistico. Ciò dovrebbe spingere al tempo stesso a rispettare tutte le regole di un ordine liberale. Un ordine che permette e incoraggia la critica, quando essa è rivolta ad azioni, forme di pensiero e tradizioni, dunque anche a governi e a organizzazioni di ogni tipo; ma che deve imprimere il marchio dell’illecito a una critica di condizioni dalle quali gli individui non possono liberarsi (o solo con estrema difficoltà): cioè la critica verso “gli” ebrei, “i” russi, “i” tedeschi o “i” piccolo-borghesi. Se il “confronto” col nazionalsocialismo viene condizionato proprio da questo pensiero collettivistico, sarà giusto mettervi la parola fine. È innegabile che spensieratezza e autocompiacimento potrebbero in seguito dilagare. Ma questa non è una conseguenza inevitabile; e in ogni caso la verità non può essere subordinata all’utilità. Un confronto piú ampio, che dovrebbe consistere in primo luogo nella riflessione sulla storia degli ultimi due secoli, porterebbe sí il passato in questione a “passare”, come si addice a qualsiasi passato; ma riuscirebbe proprio per questo ad appropriarsene.

 

AA. VV., Germania: un passato che non passa, a cura di G. E. Rusconi, Einaudi, Torino, 1987, pagg. 3 e 8-10