Ortega y Gasset, L’uomo_massa

Josè Ortega y Gasset (1883-1955) è uno dei maggiori esponenti dell’esistenzialismo europeo. Egli mette in evidenza nel suo pensiero come la vita sia in uno stretto e dinamico rapporto con la realtà che ci circonda e con la molteplicità delle possibilità che costantemente ci si presentano davanti. La sua opera piú famosa è La ribellione delle masse (1930) a cui egli, influenzato da Nietzsche, contrappone una minoranza che si propone come un’aristocrazia dello spirito.

In questa lettura il filosofo spagnolo mette a fuoco la genesi storica e alcune caratteristiche fondamentali dell’uomo-massa.

 

J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse [1930]; trad. it. a cura di S. Battaglia, Il Mulino, Bologna, 1962, pagg. 46-51

 

Com’è questo uomo-massa che oggi domina la vita pubblica, quella politica e quella non politica? Perché esso è cosí? Voglio dire, come si è prodotto?

Conviene rispondere simultaneamente a entrambe le questioni, perché si chiariscono a vicenda. L’uomo che ora tenta di porsi alla testa dell’esistenza europea è assai diverso da quello che ha diretto il secolo XIX, però è stato prodotto e preparato nel secolo XIX. Qualunque mente perspicace del 1820, 1850, 1880, poteva prevedere, con un semplice ragionamento a priori, la gravità della situazione storica attuale. Ed effettivamente nulla di nuovo accade che non sia stato previsto cent’anni fa: “Le masse avanzano”, diceva, apocalittico, Hegel; “Senza un nuovo potere spirituale, la nostra epoca, che è un’epoca rivoluzionaria, produrrà una catastrofe”, annunziava Augusto Comte; “Vedo salire la marea del nichilismo!” gridava da un angolo roccioso dell’Engadina il baffuto Nietzsche. È falso dire che la Storia non sia prevedibile. Innumerevoli volte è stata profetizzata. Se l’avvenire non offrisse un fianco alla profezia, non potrebbe nemmeno esser compreso allorché si compie e diventa passato. L’idea che lo storiografo è un profeta all’inverso riassume l’intera filosofia della storia. Certamente accade soltanto di potere anticipare la struttura generale del futuro; però questo stesso è l’unica cosa che, in verità, comprendiamo del passato e del presente. Perciò, chi voglia penetrare la propria epoca, la osservi da lontano. A che distanza? Molto semplice: alla distanza giusta che gl’impedisca di vedere il naso di Cleopatra.

Che aspetto conferisce la vita a questo uomo della moltitudine, che con progressiva abbondanza il secolo XIX va generando? Anzitutto, un aspetto di pluriforme facilità materiale. Mai l’uomo medio ha potuto risolvere con tanta larghezza il proprio problema economico. Mentre, in proporzione, diminuivano le grandi fortune e si faceva piú dura l’esistenza dell’operaio industriale, l’uomo medio trovava ogni giorno piú aperto il suo orizzonte economico. Ogni giorno aggiungeva un nuovo lusso al repertorio del suo “standard” vitale. Ogni giorno la sua posizione era piú sicura e piú indipendente dall’arbitrio altrui. Ciò che prima si trova considerato come un beneficio della sorte che ispirava umile gratitudine verso il destino, si tramutò in un diritto che non si gradisce ma si esige.

Dal 1900 comincia anche l’operaio ad ampliare e rendere sicura la sua vita Tuttavia deve lottare per ottenerlo. Non s’incontra al pari dell’uomo medio, con il benessere posto dinanzi a lui con sollecitudine da una società e da uno Stato che sono un portento d’organizzazione.

A questa facilità e sicurezza economiche si aggiungono quelle fisiche: il “confort” e l’ordine pubblico. La vita scivola sopra comode rotaie, e non c’è possibilità che intervenga in essa nulla di violento e pericoloso.

Una situazione cosí aperta e libera doveva necessariamente eccitare nello strato piú profondo di queste anime medie un’impressione vitale, che poteva esprimersi con il detto, tanto grazioso e arguto, del nostro vecchio popolo: “larga è la Castiglia”. Cioè, in tutti questi ordini elementari e decisivi la vita si presentò all’uomo nuovo come esente d’impedimenti. La comprensione di questo fatto e della sua importanza si coglie automaticamente allorché si ricordi che questo slancio vitale mancò completamente all’uomo comune del passato. Al contrario, fu per lui la vita un destino penoso, e dal punto di vista economico e da quello fisico. Sentí il vivere fin dalla nascita come un cumulo di difficoltà che era giocoforza sopportare, senza che ci fosse altra soluzione se non quella di adattarvisi di stringersi nell’angustia ch’esse lasciavano.

Però appare ancora piú chiaro il contrasto di situazioni se dall’aspetto materiale passiamo a quello civile e morale. L’uomo medio, a partire dalla seconda metà del secolo XIX, non trova dinanzi a sé nessuna barriera, vale a dire che nemmeno nelle forme della vita pubblica si trova dinanzi a ostacoli e limitazioni. Nulla lo costringe a mortificare la sua vita. Anche qui “larga è la Castiglia”. Non esistono gli “stati” né le “caste”. Non c’è nessuno civilmente privilegiato. L’uomo medio ha appreso che tutti gli uomini sono legalmente uguali.

Giammai in tutta la Storia l’uomo era stato posto in una circostanza o ambiente vitale che somigliasse neanche lontanamente a quello che queste condizioni determinavano. Si tratta, effettivamente, d’una innovazione radicale nel destino umano, che è fondata dal secolo XIX. Si crea un nuovo scenario per l’esistenza dell’uomo, nuovo materialmente e civilmente. Tre principi hanno reso possibile questo nuovo mondo: la democrazia liberale, l’esperienza scientifica e l’industrialismo. I due ultimi possono riassumersi in uno, la tecnica. Nessuno di questi principi è stato scoperto dal secolo XIX, ma anzi essi procedono dai due secoli anteriori. L’onore del secolo XIX non consiste nella loro scoperta, bensí nella loro introduzione. Nessuno lo ignora. Però non basta il riconoscimento astratto, ma è necessario addossarsi il peso delle sue inesorabili conseguenze.

Il secolo XIX fu essenzialmente rivoluzionario. E questo suo carattere non è da ricercarsi nello spettacolo delle sue barricate, che sono cronaca, ma nel fatto che collocò l’uomo medio – la grande massa sociale – in condizioni di vita radicalmente opposte a quelle che sempre lo avevano circondato. Invertí l’esistenza pubblica. E la rivoluzione non consiste nella rivolta contro l’ordine preesistente, ma nell’introduzione di un nuovo ordine che capovolge quello tradizionale. Per questo non si fa nessuna esagerazione nel dire che l’uomo generato dal secolo XIX è, agli effetti della vita pubblica, un uomo a parte rispetto a tutti gli altri uomini della storia. L’uomo del secolo XVIII si differenzia, naturalmente, da quello dominante nel secolo XVII, e questo da quello che caratterizza il secolo XVI, però tutti risultano legati da una parentela, sono affini e perfino identici nell’essenziale, se si confronta con essi quest’uomo nuovo. Per il “volgo” di tutte le età, il concetto di “vita” significava, anzitutto, limitazione, obbligo, dipendenza; in una parola, pressione. Se si vuole, si dica oppressione, purché non si intenda con essa soltanto quella giuridica e sociale, dimenticando quella cosmica. Perché è quest’ultima che non è mancata mai fino a cento anni fa, data in cui comincia l’espansione della tecnica scientifica – fisica e amministrativa – praticamente illimitata. Prima, anche per il ricco e il potente, il mondo era un ambito di povertà, difficoltà e pericolo.

Il mondo che fin dalla nascita circonda l’uomo nuovo, non lo costringe a limitarsi in nessun senso, non gl’intima nessun veto né alcuna remora ma, al contrario, eccita i suoi appetiti, che, per principio, possono crescere illimitatamente. Allora accade – e ciò è molto importante – che questo mondo del secolo XIX e degl’inizi del XX non soltanto possiede le perfezioni e le ampiezze che di fatto ha, ma inoltre ispira ai suoi cittadini l’assoluta sicurezza che domani esso sarà ancora piú ricco, piú perfetto e piú vasto, come se godesse d’uno spontaneo e inesauribile accrescimento. Ancora oggi, nonostante alcuni segni che incominciano a fare una piccola breccia in questa fede categorica, ancora oggi sono assai pochi gli uomini che dubitano che le automobili saranno fra cinque anni piú comode e piú a buon mercato d’adesso. Vi si crede come nell’immancabile levata del sole. E la similitudine è giusta ché, in realtà, l’uomo comune, nell’incontrarsi con questo mondo della tecnica e socialmente tanto perfezionato, crede che lo ha prodotto la Natura stessa, e non pensa mai agli sforzi geniali di individui eccezionali che presuppone la sua creazione. E ancora meno s’indurrà ad ammettere che tutte queste facilità continuano a sostenersi su certe difficili virtú degli uomini, il cui minimo difetto volatilizzerebbe la magnifica costruzione.

Tutto ciò ci porta a segnare nel diagramma psicologico dell’uomo-massa attuale due primi tratti: la libera espansione dei suoi desideri vitali, pertanto, della sua persona, e l’assoluta ingratitudine verso quanto ha reso possibile la facilità della sua esistenza. L’uno e l’altro tratto costituiscono la nota psicologica del bimbo viziato. E, in realtà, non cadrebbe in errore chi volesse utilizzare la nozione di essa come una lente attraverso cui guardare l’anima delle masse odierne. Erede d’un passato vastissimo e geniale – geniale d’ispirazione e di sforzi – il nuovo popolo è stato viziato dal mondo circostante. Vezzeggiare, viziare equivale a non frenare i desideri a dare l’impressione a un essere che tutto gli è permesso e che a nulla egli è obbligato. La creatura sottomessa a questo regime non ha l’esperienza dei suoi propri confini. A forza di evitarle ogni pressione dell’ambiente, ogni scontro con altri esseri arriva a credere effettivamente che soltanto essa esiste, e si abitua a non tenere in conto gli altri soprattutto a non considerare nessuno come superiore a se stessa. Questa sensazione della superiorità altrui gliela poteva dare soltanto chi piú forte di lei l’avesse obbligata a rinunziare a un desiderio, a ridursi, a contenersi. Cosí avrebbe appreso questa disciplina essenziale: “Qui arrivo io e qui comincia altri che può piú di me. Nel mondo, evidentemente, siamo almeno in due: io e un altro superiore a me”. All’uomo medio di altre epoche il suo stesso “mondo” insegnava quotidianamente questa elementare saggezza, perché era un mondo cosí duramente organizzato, che le catastrofi erano frequenti e non c’era in esso nulla di sicuro, né abbondante, né stabile. E invece le nuove masse s’incontrano con un paesaggio pieno di possibilità e inoltre sicuro, e tutto ciò pronto, a loro disposizione, senza dipendere da un previo sforzo, come appunto troviamo il sole in alto senza che ce lo siamo caricato sulle spalle. Nessun essere è riconoscente ad altri dell’aria che respira, perché l’aria non è stata fabbricata da nessuno: appartiene all’insieme di ciò che è qui, di ciò che chiamiamo “naturale”, perché non manca mai. Queste masse “viziate” sono poco intelligenti per non finire col credere che questa organizzazione materiale e sociale, posta a loro disposizione come l’aria, sia della stessa origine, dato che non sbaglia mai apparentemente, ed è quasi perfetta quanto quella naturale.

La mia tesi è dunque questa: la perfezione stessa con cui il secolo XIX ha dato un’organizzazione a certi ordini della vita, è la prima causa per cui le masse che ne beneficiano non siano disposte a considerarla come un’organizzazione, ma come “natura”. In tal modo si spiega e si definisce l’assurdo stato d’animo che queste masse rivelano: non sono preoccupate se non del loro benessere, e, nello stesso tempo, non si sentono solidali con le cause di questo benessere. Siccome non vedono nei vantaggi della civiltà una scoperta e una costruzione prodigiosa, che soltanto si possono mantenere a costo di grandi sforzi e cautele, credono che la propria funzione si riduca a esigerli perentoriamente, come se fossero diritti nativi. Nelle sommosse che la carestia provoca, le masse popolari cercano di procurarsi il pane, e il mezzo a cui ricorrono suole essere quello di distruggere i panifici. Questo può servire come simbolo del comportamento che, in piú vaste e sottili proporzioni, usano le masse attuali di fronte alla civiltà che le nutre.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. I, pag. 413-417