Platone, Sulle donne in comune (repubblica)

Platone presenta una concezione della donna e dei suoi rapporti con l’uomo in un contesto di negazione della proprietà, anche del corpo e dei figli, che ci appare assurda e carica di violenza. Nello stesso tempo però l’uomo e la donna sono posti sullo stesso piano di fronte allo Stato, che deve fare le sue scelte senza accettare discriminazioni sessuali.

 

a) Sulla comunione delle donne e dei figli (Repubblica, 457d-e)

[457 d] – Queste donne di questi nostri uomini siano tutte comuni a tutti e nessuna abiti privatamente con alcuno; e comuni siano poi i figli, e il genitore non conosca la propria prole, né il figlio il genitore. – Questa norma, disse, assai piú dell’altra susciterà diffidenza, per la sua possibilità come per la sua utilità. – Non credo, risposi, che, almeno per quanto concerne l’utile, si contesterà che non sia massimo bene avere comuni le donne e i figli, sempre che la cosa sia possibile; ma credo che ci sarà una grandissima contestazione se sia o no possibile. [e] – Ambedue i punti, fece, si potranno contestare molto. [...]

 

(Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pag. 280)

 

b) Sul rapporto uomo-donna (Repubblica, 451c-452e)

1             [451 c] [...] Forse sarebbe bene, dopo aver completamente esaurito la rappresentazione maschile, svolgere a sua volta quella femminile, soprattutto perché a questo tu inviti.

2             Per uomini nati ed educati come abbiamo detto non c’è, a mio avviso, altro modo di possedere e godere rettamente figli e donne se non procedendo nel senso da noi indicato fin dal principio: nel nostro discorso abbiamo cominciato a farne come tanti guardiani di un gregge. – Sí. – Ebbene, siamo coerenti e attribuiamo alle [d] donne analoga nascita e analogo allevamento, ed esaminiamo se la cosa ci conviene o no. – Come?, chiese. – Cosí. Non crediamo che le femmine dei cani da guardia debbano cooperare a custodire ciò che custodiscono i maschi, cacciare insieme con loro e fare ogni altra cosa in comune? O crediamo che le femmine debbano starsene dentro a casa perché impedite dalla figliazione e dall’allevamento dei cuccioli e i maschi faticare per tutte le cure degli armenti? [e] – Ogni attività dev’essere comune, rispose; con l’eccezione che li impieghiamo tenendo presente che le une sono piú deboli, gli altri piú vigorosi. – È dunque possibile, ripresi, impiegare un dato animale per identici scopi, se non lo sottoponi all’identico allevamento e all’identica educazione? – Non è possibile. – Se dunque impiegheremo le donne per gli identici scopi per i quali impieghiamo gli uomini, identica dev’essere l’istruzione che [452 a] diamo loro. – Sí. – Ora, agli uomini si sono date musica e ginnastica. – Sí. – E allora anche alle donne si devono assegnare queste due arti e i compiti bellici, e le dobbiamo impiegare con gli stessi criteri. – È una conclusione ovvia, da quel che dici, ammise. – Però, ripresi, molti punti di questo nostro discorso, se verranno messi in pratica nel modo che diciamo, forse potranno apparire contro la tradizione e ridicoli. – Certo, disse. – Di questo discorso, feci io, che cos’è che tu vedi come molto ridicolo? Non è, evidentemente, scorgere le donne far ginnastica ignude nelle palestre insieme con gli uomini, [b] non soltanto le giovani, ma perfino le anziane? Sono come quei vecchi che trovi nei ginnasi, quando, tutti grinzosi e poco piacevoli alla vista, tuttavia amano fare ginnastica. – Sí, per Zeus!, rispose; sarebbe uno spettacolo ridicolo, almeno per i nostri tempi. – Ora, dissi, poiché s’è cominciato a parlare, non si devono temere i motteggi degli spiritosi: lasciamo pure che ne dicano quanti e quali vogliono per una simile trasformazione verificatasi nei [c] ginnasi, nella musica e specialmente nel maneggio delle armi e nell’equitazione. – Hai ragione, disse. – Ma, ora che abbiamo avviato il discorso, dobbiamo procedere verso il punto piú scabroso della legge; e preghiamo questi motteggiatori di rinunciare al loro mestiere e di comportarsi seriamente, ricordando che non è passato molto tempo da quando agli Elleni sembravano brutte e ridicole certe cose che ora sembrano tali alla maggior parte dei barbari, cioè che si vedessero uomini nudi; e che quando i Cretesi per primi e poi i Lacedemoni iniziarono gli esercizi [d] ginnici, gli spiritosi di allora potevano beffarsi di tutto questo. Non credi? – Io sí. – Ma quando, come penso, durante gli esercizi sembrò piú opportuno svestirsi che coprire il corpo, anche quello che agli occhi era ridicolo sparí di fronte all’ottima soluzione che la ragione indicava. Anzi questo fatto dimostrò che è un superficiale chi ritiene ridicola tutt’altra cosa che il male; e che chi si mette a suscitare il riso guardando, come a visione di cosa ridicola, a una visione che non sia quella della stoltezza e del male, [e] persegue inoltre seriamente anche una visione del bello con uno scopo diverso da quello del bene. – Perfettamente, rispose.

 

(Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pagg. 273-275)