Platone: Via i poeti dalla città ideale! ("Repubblica")

«Perciò, a quanto pare, dobbiamo innanzitutto sorvegliare i creatori di favole, scegliendo quelle composte bene e scartando quelle composte male. Poi convinceremo le balie e le madri a raccontare ai bambini le favole che abbiamo approvato e a plasmare le loro anime con le favole molto più di quanto plasmino i loro corpi con le mani; ma bisogna rigettare la maggior parte delle favole che si narrano ai giorni nostri». «Quali?», domandò. «Nelle favole maggiori», risposi, «vedremo riflesse anche le minori. Infatti sia le une sia le altre devono avere la stessa impronta e produrre lo stesso effetto. Non credi?» «Sì », disse. «Ma non capisco che cosa intendi per favole maggiori». «Quelle che ci hanno cantato Esiodo, Omero e gli altri poeti. Sono loro che hanno composto miti falsi e li hanno narrati, e li narrano tuttora, agli uomini». «Quali sono», chiese, «e che cosa critichi in essi?» «Ciò che bisogna criticare più d'ogni altra cosa», risposi, «tanto più se le menzogne narrate non sono neanche belle». «E cioè?» «Quando nel racconto si dà una cattiva rappresentazione della natura degli dèi e degli eroi, come un pittore che dipinge immagini per nulla simili a quelle che voleva riprodurre». «è giusto muovere una tale critica», disse. «Ma in che senso, e in riferimento a quali miti la esprimiamo?» «In primo luogo», risposi, «la menzogna più grave riguarda argomenti della massima importanza ed è stata proferita ignobilmente da chi ha attribuito a Urano le azioni che compì secondo Esiodo, e a Crono la vendetta che riportò su di lui. Quanto poi a ciò che Crono fece e subì da parte dì suo figlio, (20) neanche se fosse vero riterrei opportuno raccontarlo con tanta facilità a persone giovani e senza giudizio, anzi sarebbe preferibile passarlo sotto silenzio; e se proprio ci fosse una necessità di parlarne, dovrebbe udirlo in gran segreto il minor numero possibile di persone, dopo aver sacrificato non un porco, (21) ma una vittima grande e difficile da procurarsi, così da ridurre al minimo i possibili ascoltatori». «In effetti», disse, «questi racconti sono imbarazzanti». «E non sono da narrare nella nostra città, Adimanto», continuai. «Né bisogna dire in presenza di un giovane che non farebbe nulla di strano se commettesse le peggiori ingiustizie, e neppure se punisse con ogni mezzo un padre ingiusto, ma seguirebbe l'esempio degli dèi più antichi e più grandi». «No, per Zeus», fece lui, «anche a me sembra che non sia opportuno narrare simili storie.» «Come non lo è affatto», incalzai, «dire che gli dèi si fanno guerra, si tendono insidie e si combattono tra loro (il che tra l'altro non è vero), almeno se i futuri custodi della città devono ritenere che la peggiore vergogna sia l'odio reciproco dovuto a futili, motivi. Bisogna poi evitare di proporre loro racconti e raffigurazioni di gigantomachie e di ogni altro genere di lotta ingaggiata dagli dèi e dagli eroi con i loro congiunti e familiari; ma se vogliamo persuaderlì in qualche modo che nessun cittadino ha mai avuto in odio un concittadino e che questa è un'empietà, occorre piuttosto che gli anziani, uomini e donne, ne parlino subito ai bambini, e quando essi saranno cresciuti dovranno costringere anche i poeti a scrivere storie conformi a questi princì pi. Non bisogna invece accogliere nella città le fole di Era incatenata dal figlio (22) e di Efesto scagliato giù dal padre quando stava per venire in aiuto della madre percossa,(23) né le battaglie degli dèi inventate da Omero,(24) che abbiano o meno un significato allegorico. Il giovane infatti non sa distinguere ciò che è allegoria da ciò che non lo è, ma le opinioni che accoglie a questa età diventano di solito incancellabilì e immutabili; per questo forse bisogna fare ogni sforzo affinché le prime cose ascoltate dai giovani siano miti composti nel miglior modo possibile per incitarli alla virtù». «Parole sensate», ammise. «Ma se qualcuno ci chiedesse quali sono questi argomenti e questi miti, che cosa diremmo?» E io risposi: «Adimanto, per ora io e te non siamo poeti, ma fondatori di una città; e ai fondatori di una città spetta conoscere i modelli in base ai quali i poeti devono comporre i loro miti e impedire che li trasgrediscano, ma non devono inventare essi stessi dei miti». «Giusto», disse. «Ma quali sarebbero i modelli da seguire quando si parla degli dèì ?» «Più o meno questi», risposi: «bisogna sempre rappresentare la divinità qual è veramente, tanto nell'epica quanto nella lirica e nella tragedia». «Sì , bisogna fare questo». «Ora, se la divinità è realmente buona, non va definita in questi termini?» «Come no?» «Ma nulla di ciò che è buono è dannoso. O no?» «Mi pare di sì ». «Quindi ciò che non è dannoso non arreca danno?» «In nessun modo». «E ciò che non arreca danno compie qualcosa di male?» «Neanche questo». «E ciò che non compie alcun male può essere causa di un male?» «E come potrebbe?» «Ma ciò che è buono non è forse utile?» «Sì ». «Ed è causa di benessere?» «Sì ». «Dunque ciò che è buono non è la causa di tutto, ma è responsabile solo del bene, non del male». «Precisamente», disse. «Quindi la divinità», proseguii, «essendo buona, non sarà la causa di tutto, come dice la gente, ma sarà responsabile di poche vicende umane, non di molte, perché i beni che noi possediamo sono molto minori dei mali; e mentre la causa dei beni non va ricondotta ad altri che alla divinità, per i mali si deve ricercare una causa diversa». «Le tue parole mi sembrano molto vere», disse. «Allora», feci io, «non è scusabile lo stupido errore commesso da Omero o da un altro poeta a proposito degli dèi, quando affermano che "sulla soglia di Zeus due otri son posti pieni di sorti, l'uno di buone, l'altro di tristi", e a chi Zeus dà una mescolanza di entrambi "ora un male gli tocca, ora s'imbatte in un bene", a chi invece concede una sorte non mista, ma attinta solo dal secondo, "mala fame lo spinge sopra la terra divina"; né si deve accettare l'idea che Zeus sia per noi "dispensiere di beni e di mali".(25) E non approveremo se qualcuno sosterrà che la violazione dei giuramenti e della tregua fatta da Pandaro avvenne ad opera di Atena e di Zeus,(26) o attribuirà la discordia e il giudizio delle dee a Temis e a Zeus,(27) né si deve permettere ai giovani di sentire, come dice Eschilo, che "colpa fa nascere il dio nei mortali, quando voglia una casa distruggere a fondo".(28) Ma se uno canta le sventure di Niobe, a cui si riferiscono questi giambi, o dei Pelopidi (29) o di Troia o altre del genere, gli si deve impedire di ascrivere queste vicende all'opera di un dio, altrimenti bisogna trovare per esse una giustificazione come quella che stiamo cercando ora, e dire che la divinità ha compiuto azioni giuste e buone e che quei personaggi trassero giovamento dalla punizione ricevuta; ma non si deve permettere al poeta di asserire che chi pagò il fio fu infelice a causa della divinità. Se invece dicessero che i malvagi, in quanto infelici, meritarono una punizione, e scontando la propria colpa furono beneficati dalla divinità, dovremmo lasciare che dicano; viceversa dobbiamo opporci con tutte le forze all'affermazione che un dio, pur essendo buono, è causa di sventure: nessuno, giovane o vecchio, creatore di miti in versi o in prosa, deve proferire o ascoltare parole simili in una città che vuole essere ben governata, perché se venissero pronunciate sarebbero empie, inutili per noi e non coerenti con se stesse». «Questa legge mi piace», disse, «e mi unisco a te nel votarla». «Questa dunque», ripresi, «può essere una delle leggi e dei princì pi concernenti gli dèi cui dovranno attenersi i narratori e i poeti: la divinità non è causa di tutto, ma solo del bene». «Ed è abbastanza», disse. «E quale sarà la seconda legge? Credi forse che il dio sia un mago, capace di apparire a bella posta in svariate forme, e che a volte sia proprio lui a presentarsi e cambiare il proprio aspetto in molte sembianze, a volte invece ci inganni suscitando in noi questa impressione? Oppure credi che sia semplice e meno che mai esca dal proprio aspetto?» «Così sul momento non saprei che dire», confessò. «Allora senti questo. Se qualcosa esce dal proprio aspetto, non deve necessariamente mutarsi da sé o per opera altrui?» «Necessariamente». «Ma ciò che si trova nella condizione migliore non è il meno sogetto a essere alterato e sconvolto per opera altrui? Per esempio, corpo per effetto di cibi, bevande e fatiche, ogni pianta per effetto del calore solare, dei venti e di accidenti simili, quanto più sono sani e forti tanto meno subiscono alterazioni?» «Come no?» «E l'anima più coraggiosa e più saggia non sarà la meno soggetta a sconvolgimenti e alterazioni dall'esterno?» «Sì ». «E analogamente anche tutti gli oggetti costruiti dall'uomo, attrezzi, case e vestiti, se ben costruiti e in buono stato, vengono minimamente alterati dal tempo e dagli altri accidenti». «è così ». «Allora tutto ciò che si trova in buono stato o per natura o per arte o per entrambe le cose, subisce un minimo mutamento per opera altrui». «A quanto pare». «Ma la divinità e ciò che la concerne godono in tutto e per tutto della condizione migliore». «Come no?» «Di conseguenza la divinità sarà l'essere meno soggetto ad assumere molte sembianze». «Il meno soggetto, certamente». «Ma può mutarsi e trasformarsi da sola?» «è evidente», rispose, «se è vero che si trasforma». «Dunque muta se stessa in ciò che è migliore e più bello, o in ciò che è peggiore e più brutto?» «è inevitabile che si muti in peggio», rispose, «se è vero che si trasforma; non diremo certo che la divinità è in difetto di bellezza o di virtù!». «Hai proprio ragione», dissi. «Stando così le cose, Adimanto, ti sembra che qualcuno, non importa se dio o uomo, possa rendersi peggiore di sua volontà?» «è impossibile». «Perciò», ripresi, «è anche impossibile che un dio voglia trasformarsi, ma a quanto pare, avendo il più alto grado di bellezza e di virtù, ogni dio semplicemente mantiene sempre la sua forma». «Mi sembra che sia assolutamente inevitabile», disse. «Quindi, carissimo», continuai, «nessun poeta venga a dirci che "dèi col sembiante d'ospiti stranieri nelle più varie forme girano le città"; (30) e nessuno racconti menzogne su Proteo e Teti, (31) né rappresenti in tragedia o in altri generi poetici Era trasformata in sacerdotessa che mendica «per l'alme figlie del fiume Inaco argivo»,(32) né ci stiano a propinare molte altre fandonie di questo genere. E le madri non si lascino persuadere da costoro e non spaventino i loro figli raccontando favole inopportune di dèi che si aggirano di notte sotto le sembianze di stranieri d'ogni tipo, per evitare che bestemmino contro gli dèi e nello stesso tempo rendano i loro figli più vili». «Se ne guardino!», esclamò. «Non potrebbe però essere», chiesi, «che gli dèi sono incapaci di mutarsi da sé, ma ci fanno credere che appaiono in svariate forme, ingannandoci e prendendosi gioco di noi?» «Forse», rispose.

Platone, "Repubblica"

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