Sartre, Sulla libertà

Per Sartre la coscienza si fonda sulla libertà, il cui potere annichilente si rivela nell’angoscia.

 

P. Sartre, L’Etre e le Néant, Gallimard, Paris, 1943, trad. it. L’essere e il nulla, di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano, 1972, pagg. 66-68 -435)

 

Si tenterà di ritorcerci un’obiezione di cui noi stessi ci siamo spesso serviti: se la coscienza annullatrice esiste solo come coscienza di annullamento, bisognerebbe definire un modo continuo di coscienza, presente come coscienza, che sia coscienza di annullamento. Esiste questa coscienza? Ecco dunque la nuova questione che qui si solleva: se la libertà è l’essere della coscienza, la coscienza deve essere come coscienza di libertà. Quale forma prende questa coscienza di libertà? Nella libertà l’essere umano è il suo passato (come anche il suo avvenire) sotto forma di annullamento. Se le nostre analisi non si sono smarrite, deve esistere per l’essere umano, in quanto è cosciente d’essere, una certa maniera di porsi di fronte al suo passato e al suo avvenire come essente e non essente insieme questo passato e questo avvenire. Possiamo dare a questo problema una risposta immediata: è nell’angoscia che l’uomo prende coscienza della sua libertà o, se si preferisce, l'angoscia è il modo d’essere della libertà come coscienza d’essere, è nell’angoscia che la libertà è in questione nel suo essere in quanto tale.

Kierkegaard, descrivendo l’angoscia prima della colpa, la caratterizza come angoscia davanti alla libertà. Heidegger, che si sa quanto abbia subíto l’influenza di Kierkegaard, considera invece l’angoscia come la percezione del nulla. Queste due descrizioni dell’angoscia, non appaiono contraddittorie: al contrario, si implicano a vicenda.

Bisogna anzitutto dar ragione a Kierkegaard: l'angoscia si distingue dalla paura, perché la paura è paura degli esseri del mondo, e l’angoscia è angoscia di fronte a me stesso. La vertigine è angoscia in quanto temo non di cadere nel precipizio, ma di gettarmici io stesso. Una situazione, che provoca la paura in quanto rischia di modificare dal di fuori la mia vita e il mio essere, provoca l’angoscia se e in quanto diffido delle mie reazioni di fronte a tale situazione. La preparazione di artiglieria che precede l’attacco può provocare paura nel soldato che subisce il bombardamento, ma l’angoscia comincerà in lui, quando si sforzerà di prevedere i comportamenti che opporrà al bombardamento, quando si chiederà se può “resistere”. Cosí pure il richiamato, che raggiunge il suo deposito al principio della guerra, può, in certi casi, aver paura della morte; ma assai piú spesso, ha “paura di aver paura”, cioè si angoscia di fronte a se stesso. La maggior parte delle volte le situazioni pericolose o minacciose sono poliedriche: saranno percepite attraverso un sentimento di paura o di angoscia, a seconda che si considererà la situazione agire sull’uomo o l’uomo agire sulla situazione. L’uomo che ha ricevuto “un duro colpo”, la perdita in un crollo finanziario di gran parte delle sue risorse, può aver paura della povertà che lo minaccia. Ma si angoscerà l’istante dopo, quando, torcendosi nervosamente le mani (reazione simbolica all’azione che si impone, ma ancora completamente indeterminata), griderà: “Che cosa devo fare? Ma che cosa devo fare?”. In questo senso la paura e l’angoscia sono esclusive l’una dell’altra, perché la paura è apprensione irriflessa del trascendente, e l’angoscia è apprensione riflessa di sé, l’una nasce dalla distruzione dell’altra, e il processo normale nel caso citato è un passaggio costante dall’una all’altra. Ma esistono anche delle situazioni nelle quali l’angoscia appare pura, senza essere mai stata preceduta o seguita dalla paura. Se per es., sono stato promosso a una dignità nuova, e incaricato d’una missione delicata e lusinghiera, posso angosciarmi pensando di non essere forse capace di compierla, senza avere la minima paura delle conseguenze del possibile fallimento.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. II, pagg. 337-338