Schopenhauer, L'Inferno di Dante e il migliore dei mondi possibili

A.            Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, IV, 59

 

“Se finalmente a ciascuno si volessero porre sott'occhio gli orrendi dolori e strazi, a cui è la sua vita perennemente esposta, lo coglierebbe raccapriccio: e se si conducesse il piú ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, pei campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di Ugolino, finalmente finirebbe anch'egli con l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles. Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo nostro mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre materiale per una impresa siffatta. Perciò non gli rimase se non trasmetterci, in luogo delle gioie paradisiache, gli ammaestramenti, che a lui furono colà impartiti dal suo antenato, dalla sua Beatrice, e da differenti santi. Da ciò apparisce abbastanza chiaro, di qual natura sia questo mondo”.

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari, 1979, IV, 59, pag. 428)