Schopenhauer, le Upanishad

Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860), entusiasta del pensiero indiano – tanto da definire la lettura delle Upanishad “conforto della mia vita” e “consolazione della mia morte” –, mette in evidenza come questo abbia un carattere universale e possa rivolgersi a ogni uomo, compreso l’uomo europeo, che potrà sentirsi piú vicino “alle origini e alla natura”. Nello stesso tempo, però, Schopenhauer sottolinea quanto distante sia il mondo occidentale da quello indiano: ma le difficoltà linguistiche che egli descrive – che sono il segno dell’abisso fra questi due mondi – devono essere superate, rinunciando alla grammatica e alla sintassi del pensiero occidentale, se vogliamo avvicinarci in maniera proficua alla sapienza indiana.

 

A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, II, par. 183

 

Quando io penso quanto è difficile con l’aiuto dei migliori maestri accuratamente a ciò preparati e degli eccellenti sussidi filologici accumulatisi nel corso dei secoli giungere ad una intelligenza propriamente vera, esatta e vivente degli autori greci e romani le cui lingue sono pur quelle dei nostri predecessori in Europa e le madri di lingue ancor oggi viventi; e che invece il sanscrito è una lingua che fu parlata or sono mille e piú anni nell’India lontana mentre i mezzi per apprenderla sono oggi assai imperfetti; e quindi io vi aggiungo l’impressione che fanno su di me, tolte rarissime eccezioni, le traduzioni degli eruditi europei dal sanscrito; non possono esimermi dal sospetto che i nostri indianisti non intendano i loro testi molto meglio di quello che i ragazzi delle nostre scuole intendano i testi greci; e che, poiché essi sono uomini dotti e intelligenti e non ragazzi, ricompongano da ciò che intendono il senso complessivo in un modo molto approssimativo, non senza insinuarvi naturalmente qualche cosa del proprio. [...]

Se io rifletto d’altra parte che il sultano Mohammed Darshakoh, fratello di Aureng-Zeb, nato e allevato in India, ebbe la sua istruzione ed esercitò il suo pensiero per mezzo della lingua sanscrita che doveva quindi essere a lui cosí familiare come a noi il latino, e che per di piú egli ebbe a collaboratori anche un certo numero di dotti brahmani; questo basta già a creare anticipatamente in me un’alta opinione della sua traduzione persiana delle Upanishad. E se di piú considero con quale profonda reverenza, adeguata al soggetto, Anquetil du Perron trattò questa traduzione persiana rendendo in latino parola per parola, conservando fedelmente a dispetto della grammatica latina la sintassi persiana e lasciando intradotte le parole sanscrite cosí lasciate dal sultano per darne una esplicazione solo nel glossario; non posso non leggere questa traduzione con la piú perfetta fiducia, la quale trova ben presto nella lettura la piú confortante conferma. Quanto profondamente infatti essa respira il sacro spirito dei Veda! Quanto profondamente colui che con l’attenta lettura si è reso familiare il persiano-latino di questo libro incomparabile, si sente penetrato dallo stesso spirito! Ogni riga vi ha il suo senso preciso, sicuro e generalmente ben concatenato: da ogni pagina parlano a noi pensieri profondi, originali ed elevati, mentre sul tutto si libra una gravità sacra e solenne. Tutto respira qui l’aria dell’India e ci trasporta in una vita piú vicina alle origini e alla natura. E come qui lo spirito vien purificato da tutte le superstizioni giudaiche impresse in esso dall’infanzia e da tutte le filosofie che ne sono schiave! Esso è la lettura piú feconda e piú nobilitante che (eccetto il testo originale) sia possibile al mondo; essa è stata il conforto della mia vita e sarà la consolazione della mia morte.

 

(A. Schopenhauer, Morale e religione, Mursia, Milano, 1981, pagg. 350-351)