Schumpeter, Capitalismo e proprietà privata

Joseph Schumpeter (1883-1950), esponente della cultura mitteleuropea, è uno degli economisti piú importanti di questo secolo. In sintonia con Marx su molti punti, egli sottolinea l’importanza dello spirito innovativo in campo economico, che è in grado di offrire benessere e ottenere il profitto come corrispettivo. L’economia si svolge per fasi: a quella prospera segue la fase di flessione e quindi quella di ripresa. Per Schumpeter il capitalismo, dopo aver distrutto tutte le altre formae mentis, alla fine distruggerà anche se stesso.

In questa lettura egli afferma che il processo capitalistico tende alla eliminazione delle piccole e medie aziende. Ciò significa alterare il quadro democratico e svuotare il concetto stesso di proprietà.

 

J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Libri, Milano, 1977, pagg. 135-137

 

La struttura politica di un paese è profondamente modificata dall’eliminazione di un nugolo di aziende piccole e medie, i cui titolari, insieme coi dipendenti, servi e familiari, contano quantitativamente alle elezioni ed esercitano su quella che potremmo chiamare la classe degli uomini di punta un’influenza che la grande impresa non potrà mai vantare; le basi stesse della proprietà privata e della libera contrattazione crollano, in un paese in cui i loro modelli piú vitali, concreti e significativi spariscono dall’orizzonte morale del popolo.

D’altro lato, il processo capitalistico mina la propria intelaiatura istituzionale – continuiamo a prendere la parte (la “proprietà” e la “libera contrattazione”) per il tutto – anche all’interno delle grandi unità produttive. Prescindendo dai casi, anche se notevoli, in cui l’impresa è praticamente proprietà di un singolo o di una famiglia, la figura del proprietario e, con essa, l’interesse specifico alla proprietà sono scomparsi. Ci sono gli amministratori, i dirigenti e i sottodirigenti: ci sono i grandi e i piccoli azionisti. Il primo gruppo tende ad assumere l’atteggiamento tipico dei funzionari e anche nel caso piú favorevole – quello in cui s’identifica con gli interessi dell’azienda in quanto tale – raramente (o mai) s’identifica con gli interessi degli azionisti. Il secondo, anche se considera permanente il proprio rapporto con l’azienda e, in pratica, agisce come la teoria finanziaria vuole che agiscano i titolari, non ne ha né la funzione né il comportamento specifico. Quanto al terzo gruppo, i piccoli azionisti spesso non si curano di quella che per quasi tutti rappresenta una fonte secondaria di reddito e, se ne curino o meno, raramente l’hanno a cuore; essendo generalmente bistrattati, e piú spesso ritenendosi tali, prendono quasi sempre un atteggiamento ostile alla “loro” azienda, al big business in generale e, specie quando le prospettive non sono brillanti, allo stesso ordine capitalistico [...].

Cosí, il processo capitalistico caccia in secondo piano tutti gli istituti, – ma specialmente quelli della proprietà e della libera contrattazione, – in cui si esprimevano i bisogni e i modi d’essere dell’attività economica veramente “privata”. Dove non li abolisce – come ha già abolito, sul mercato del lavoro, la libera contrattazione – perviene allo stesso risultato modificando l’importanza relativa delle forme giuridiche esistenti – le forme giuridiche proprie della società per azioni (per esempio) in confronto a quelle delle società appartenenti a individui singoli o a soci – o alterandone il contenuto o dando loro un significato diverso. Il processo capitalistico, sostituendo i pacchetti di azioni ai muri e alle macchine dello stabilimento, svuota il concetto di proprietà, ne indebolisce la presa un tempo cosí forte – la presa nel senso del diritto legale e della capacità reale di trasformare ciò che si ha in ciò che si vuole, sia nel senso che il possessore del titolo è deciso a combattere, economicamente, fisicamente e politicamente per la “propria” azienda e per il suo controllo e a morire, se necessario, sui suoi gradini. L’evaporazione di quella che possiamo chiamare la sostanza materiale della proprietà – e la sua realtà visibile e tangibile – incide non solo sull’atteggiamento degli azionisti, ma anche su quello degli operai e del pubblico in genere. La proprietà smaterializzata, sfunzionalizzata e assenteista non esercita piú il fascino tipico della forma ancora vitale della proprietà. Un giorno non ci sarà piú nessuno al quale veramente prema di difenderla – nessuno all’interno, e nessuno all’esterno dei confini dell’azienda-gigante.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. IV, pagg. 32-33