Strauss, Storia di Cristo e filosofia

Secondo Strauss, poiché la storia di Cristo, cosí come essa viene raccontata nei Vangeli, è incompatibile con la filosofia, è necessaria una transizione da qualcosa di esternamente storico a qualcosa di interno e spirituale.

 

D. F. Strauss, La vita di Gesú o Esame critico della sua storia, vol. II

 

Il vero stato delle cose è pertanto il seguente. La comunità cristiana riferisce la cristologia della Chiesa ad un individuo storicamente esistito in un dato tempo; il teologo speculativo ad una idea, che solo nella generalità degli individui traducesi in realtà; la comunità cristiana riguarda i racconti evangelici come storia, il teologo critico li riguarda in buona parte come miti. Ora, se egli vuole partecipare a quella comunità, quattro vie gli si aprono dinanzi.

In primo luogo, il tentativo già tracciato nelle precedenti dichiarazioni di Schleiermacher: sollevare cioè la comunità cristiana al proprio punto di vista, e, anche per essa, disciogliere in idee la parte storica: – tentativo, che deve necessariamente fallire, poiché alla comunità mancano tutte quelle premesse per le quali è passato il teologo prima di giungere alla sua opinione speculativa; il tentativo, quindi, a cui solo potrebbesi indurre un desiderio fanatico di spiegare ogni cosa.

La seconda ed opposta via sarebbe quella di trasportarsi interamente al punto di vista della comunità cristiana e, per rimaner nel seno di questa, discendere dalla sfera dell’idea, nella regione delle immagini popolari. Codesta via viene di solito concepita e giudicata in modo troppo aspro e reciso. La differenza fra il teologo e la comunità riguardasi comunemente come una differenza integrale: alla domanda – s’egli crede nella storia di Cristo – il teologo – ci si dice – risponde di sí, mentre propriamente dovrebbe rispondere di no: e questa è finzione. Certo, se la dottrina e la coltura ecclesiastica riposasse sopra un interesse storico: ma qui l’interesse è invece religioso: ella è essenzialmente religione quella che qui ci si comunica: e cosí stando le cose, colui che non crede nella storia come tale, ben può in essa riconoscere tuttavia la religione, al pari di colui che la storia come tale accetta: la è solo una differenza di forma, che lascia intatta la sostanza. È quindi sconveniente ed improprio il gridar tosto alla finzione, se un sacerdote, a cagion di esempio, predica intorno alla risurrezione di Cristo: giacché quantunque egli non ritenga questa come reale, in quanto singolo fatto corporeo, ben egli ritiene per vera la dottrina del processo spirituale della vita che forma di quel racconto la base. Piú dappresso riguardando però questa identità della sostanza sussiste solo per colui che nella religione sa distinguere tra sostanza e forma, – vale a dire per il teologo e non per la comunità alla quale egli parla; questa non sa comprendere come creder si possa nella verità dogmatica, per esempio, della risurrezione di Cristo, senza essere convinti della storica realtà della medesima: laonde se appena ella riesce ad accorgersi che il sacerdote non ammette tale realtà, mentre pur le parla della risurrezione, ella lo incolpa di menzogna – e ogni rapporto o legame, fra la comunità e lui, per tal modo si rompe.

Cosí avviene che, non essendo per ombra, in sé, menzognero, ma pur tale sembrando alla comunità, – e di ciò consapevole – il sacerdote, se nullameno si ostina a parlare alla comunità sotto le forme volute dalla di lei coscienza, finisce coll’apparire un mentitore anche a se stesso e trovasi spinto al terzo e disperato partito, quello di abbandonare lo stato sacerdotale. Né giova il dire, ch’ei discenda dal pulpito e salga invece sulla cattedra, donde egli potrà esporre senza tema le proprie opinioni scientifiche, dinanzi la persona cresciuta alla scienza: giacché se a colui che per il processo della sua coltura si senta costretto ad abbandonare il ministero sacerdotale accadesse di educare alla propria scuola molti che per opera sua divenissero poi egualmente incapaci a quel ministero, da un male se ne farebbe uno maggiore.

[...]

Egli si metterà pertanto in cerca di un’altra via; rifiutate le due prime perché esclusive, la terza perché transazione puramente negativa, se gliene presenta ora una quarta, che è una transazione positiva fra i due estremi, la coscienza del teologo e quella della comunità. Ne’ suoi sermoni ai membri di questa egli, per vero, si atterrà alle forme della popolare credenza, ma in guisa però da farne ad ogni occasione trasparire il fondo spirituale, nel quale soltanto è riposta a’ suoi occhi la verità della cosa, e da preparare per tal modo il dissolversi di quelle forme nella coscienza stessa della comunità, quand’anco ciò non potesse effettuarsi che per via di progresso indefinito. Egli quindi, il teologo, nella festa di Pasqua – per attenersi all’esempio citato – partirà, è vero, dal fatto materiale della risurrezione di Cristo, ma ne farà spiccare come parte essenziale quell’essere seppellito e risorgere in spirito col Cristo, a cui l’Apostolo già allude. Questo, per lo appunto, è ciò che fa ogni predicatore, anche il piú ortodosso, tutte le volte che dal racconto evangelico, oggetto del sermone, egli trae la morale: nel che già scorgiamo una vera transizione da qualcosa di esternamente storico a qualcosa di interno e di spirituale. Certo, non è da trascurarsi questa differenza, che il predicatore ortodosso costituisce la cosí detta morale sopra la storia del suo testo in guisa che questa tuttavia rimanga come storica base: laddove nel predicatore speculativo il passaggio dalla storia biblica, ossia dalla dottrina della Chiesa alla verità ch’egli ne fa derivare, assume il significato negativo di distruzione di quella storia e di quella dottrina.

 

Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XVIII, pagg. 883-886