Tommaso d’Aquino, Il problema dell'anima

Il problema dell'anima fu uno dei piú difficili e complessi suscitati dagli scritti di Aristotele. Tommaso polemizza con la dottrina averroista, sostenuta nel mondo latino da Sigieri di Brabante e dai suoi seguaci, sull'intelletto passivo, separato dal corpo ed unico per tutta la specie umana, che portava alla negazione dell'anima individuale. In gioco vi era il rapporto fra l'impersonalità della ragione epistemica e le pretese della religione di affermare l'anima personale e immortale della stessa.

 

De unitate intellectus, 5, 119-124

 

E' falso pertanto ciò ch'essi affermano, essere un principio di tutti i filosofi, sí arabi che peripatetici, eccezion fatta dei latini, che l'intelletto non possa molteplicarsi numericamente. Algazel infatti non era latino, ma arabo. Ed anche Avicenna, che pure era arabo, dice cosí nel suo libro Dell'anima: “La prudenza e la stoltezza, l'opinione ed altre cose siffatte non sono se non nell'essenza dell'anima... Dunque le anime non sono una sola, ma molte di numero, ed una sola è la specie di esse”.

E per non omettere i greci, riporteremo le parole di Temistio nel suo commento al De anima. Essendosi chiesto se l'intelletto agente sia uno solo o molteplice, egli risolve il problema dicendo: “Ovvero si deve credere che il primo intelletto che c'illumina è uno solo, ma che gl'intelletti illuminati, i quali illuminano alla loro volta, son molti. Il sole infatti è uno solo, ma tu dovrai riconoscere che la sua luce è distribuita, dividendosi in qualche modo, a molti occhi. Perciò [Aristotele] comparò l'intelletto [agente] non al sole ma alla luce; Platone invece al sole”. E' chiaro dunque dalle parole di Temistio, che neppure l'intelletto agente, del quale parla Aristotele, è uno solo, che pure è intelletto illuminante; tanto meno l'intelletto possibile che è illuminato; pure è vero che la prima sorgente dell'illuminazione è una sola, cioè una qualche sostanza separata, o Dio secondo i cattolici, o l'ultima delle intelligenze secondo Avicenna. Temistio dimostra l'unità di siffatto principio separato con questo argomento, che chi insegna e chi impara intendono la stessa cosa; il che non accadrebbe se non vi fosse uno stesso principio che li illumina ambedue. Pure è vero quel che dice appresso, che cioè taluni dubitavano se l'intelletto possibile è uno solo oppure no.

Né di questo egli dice altro, poiché il suo intento non era di soffermarsi sulle diverse opinioni dei filosofi, bensí quello di esporre i pareri di Aristotele, di Platone e di Teofrasto. Perciò egli conclude, alla fine: “Ma come dicevano, lo stabilire qual è l'opinione dei filosofi, è oggetto di particolare studio e ricerca, Pure, qual fosse il pensiero di Aristotele, di Teofrasto e dello stesso Platone su questo argomento, è agevole ricavarlo dai loro detti che qui abbiamo riferito”.

Dunque è evidente, che Aristotele e Teofrasto e lo stesso Platone non ritennero affatto, come principio, che l'intelletto possibile fosse uno solo in tutti gli uomini. Ed è evidente del pari, che Averroè deforma la dottrina di Temistio e di Teofrasto sull'intelletto possibile ed agente.

Sí che sorprende come taluni, i quali non conoscono che il commento d'Averroè, osino affermare, come lui, che questo fu il pensiero di tutti i filosofi, greci ed arabi, eccettuati soltanto i latini.

Anche la maggior meraviglia, o piuttosto indignazione suscita il linguaggio di chi, professandosi cristiano, osa parlar della fede cristiana con tanta irriverenza; come quando dice che i latini non accolgono questa dottrina dell'unità dell'intelletto, per i loro principii, “perché forse la loro legge vi s'oppone”. Ove son da biasimare due cose: primo, il dubitare che ciò sia contrario alla fede; secondo, il mostrarsi estraneo a questa legge. Dopo di che egli osserva: “Questa è la ragione per la quale i cattolici sembrano tenere la loro posizione”; – ov'egli chiama posizione la dottrina della fede.

Né riveste il carattere di minor presunzione quello ch'egli osa asserire dipoi, che cioè “Dio non potrebbe far sí che vi fossero molti intelletti, perché implica contraddizione”.

Ma anche piú grave è quel che soggiunge: “Per via di ragione concludo necessariamente, esservi un solo intelletto di numero; tuttavia per fede tengo il contrario”. Dunque egli pensa che possa esservi fede di talune cose, delle quali si può dimostrare apoditticamente il contrario. Ora, siccome non può dimostrarsi apoditticamente se non un vero necessario, l'opposto del quale è falso ed assurdo, ne viene di conseguenza, a stare ai sui detti, che la fede ha per oggetto il falso e l'impossibile, cioè quello che neanche Dio potrebbe fare: la qual cosa non può esser tollerata da orecchie di fedeli.

Né è scevro di grande temerità il modo com'egli presume discutere di cose che non concernono la filosofia, ma unicamente la fede; come, per esempio, se l'anima soffra del fuoco dell'inferno, e il dire che son da biasimare gl'insegnamenti dei Dottori su questo punto. Allo stesso modo egli potrebbe mettersi a disputare sulla Trinità, sull'Incarnazione e su argomenti consimili, dei quali non potrebbe parlare se non come chi va a tentoni.

Queste cose pertanto abbiamo scritto per confondere il predetto errore, senza far uso dei documenti della fede, sibbene degli argomenti e delle testimonianze dei filosofi. Che se taluno, gloriandosi d'una falsa scienza, ha qualcosa da dire contro quanto abbiamo scritto, non parli negli angoli né davanti a fanciulli che non sanno giudicare di questioni sí ardue, ma impugni questo scritto, se ne ha l'ardire, e troverà non solo me, che sono il minimo di tutti, ma molti altri cultori della verità, i quali si opporranno al suo errore, o provvederanno a smascherarne l'ignoranza.

 

(San Tommaso d'Aquino, Trattato sull'unità dell'intelletto contro gli averroisti, Sansoni, Firenze, 1947, pagg. 184-189)