Von Balthasar, Per un nuovo vedere

Il “vedere” veramente l’altro significa, nei rapporti umani, non tanto un fatto meccanico e legato ai sensi, quanto piuttosto un atto spirituale che noi definiamo con le parole: ascolto, attenzione, partecipazione alla vita dell’altro, accoglienza. Nel nostro rapporto con il Signore avviene ciò che capita nella vita di tutti i giorni: il nostro vederlo dipende dalla disponibilità che abbiamo a lasciarci coinvolgere da lui. Cosí nel Figlio, che manifesta (rende per noi visibile) l’infinito amore del Padre, si vede la bellezza di Dio lasciandosene coinvolgere.

 

H. U. von Balthasar, Gloria

 

a) Un “vedere Dio” attraverso la sua Parola e Immagine – al di là di tutte le proteste di invisibilità (Gv 1,18; 5, 37s; 6, 46) – diventa comprensibile per l’uomo soltanto a partire da una preintelligenza interumana del fenomeno. Questa è doppia anche se gli aspetti sono congiunti tra loro. Il guardare umano è piú che soltanto sensitivo-fisiologico, esso può scorgere (er-blicken) nel sensibile rapporti spirituali (nello spazio e nel tempo) ed abbracciarli con lo sguardo (über-blicken) in unità. Lo può soprattutto quando percepisce manifestazioni visibili e udibili di una persona che manifesta liberamente (soprattutto) se stessa e quando parlando risponde (an-spricht), positivamente o negativamente, al suo appello o pretesa (an-spruch). Da un punto di vista cristiano questa preintelligenza non è da ritenere una fase previa irrilevante, che anzi la Parola-immagine divina vi si deve come iscrivere (senza per questo risolversi in essa); infatti: “Chi non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20). Il rapimento nel vedere è indivisibilmente due cose: amore credente per Gesú e in lui per Dio (Gv 14,1) e attuazione del suo comandamento d’amore del prossimo (14,15). Il vedere umano-personale vede veramente solo quando è disposto a farsi come incontro, vedendo, a ciò che si offre al suo sguardo: in questo il vedere personale è anzitutto un prendere (ver-nehmen) e un ascoltare per poi penetrare gradualmente, nel comprendere (ver-stehen). Allo stesso modo il vedere biblico (particolarmente quello giovanneo) ha gradi molteplici che portano dall’esterno all’interno, dall’incoativo al compiuto. Si può vedere Gesú esteriormente, come uomo, senza riconoscere che cosa egli vuole come persona affermare, e tuttavia il suo “dire” (12,50) abbraccia tutto quello che si può udire di lui e che di lui e del suo operare si può vedere ed esperire. La conoscenza che ci si deve conquistare per mezzo suo è “progressiva”, “dinamica”. Se è vero che tutte le manifestazioni di una persona non la esauriscono mai e inoltre costringono a prese di posizione a suo riguardo che in seguito ce la fanno concepire diversamente (piú velata o piú svelata), sarà questo tanto piú il caso dell’autoespressione di Dio in Gesú. Inoltre va tenuto presente che l’automanifestazione di Dio nell’incarnazione della sua Parola si è fatta visibile una volta per tutte storicamente nello spazio e nel tempo, e visibile non soltanto come figura umana ma come azione salvifica legata a tale persona umana storica. Di conseguenza, ogni vista nel profondo dell’azione salvifica di Dio è per sempre legata alla letterale “vista” storica dei testimoni oculari. Il fatto che essi abbiano “visto, udito, toccato” resta, nella sua storicità, la base di ogni ulteriore percezione da parte della chiesa, per quanto profonda nella fede e nell’intelligenza. Ma come questa percezione (Wahrnehmung) – un non-vedere in senso terrestre (Gv 20,29) un vedere come totale esperienza di fede (14,l9 – si basa continuamente sulla vista archetipa dei testimoni oculari (1 Gv 1,1-3), cosí la vista sensibile dei primi discepoli rimanda, oltre se stessa (Gv 1,50s), alla spiegazione e alla intelligenza delle cose viste, il cui presupposto è il non vedere piú colui che ritorna al Padre (16,7). Come secondo Agostino una proposizione deve aver cessato di risuonare perché possa essere afferrato tutto il suo significato, cosí anche l’evento salvifico della croce e della risurrezione deve essere passato perché possa essere finalmente visto (mediante lo Spirito che spiega) in tutta la sua vera portata. La vista che i discepoli hanno del Risorto è, in questa linea, mediazione tra “rivedere” (16,16) e non piú vedere (in senso terreno), oppure tra una presenza definitiva e manifesta del Padre e del Figlio (14, 21.23) e una assenza per “un poco” (16,16-23), un poco che comprende sia il Triduum Mortis sia, per la chiesa, la durata del tempo del mondo. A ben guardare esattamente la cosa, il discorso della presenza nella assenza non è affatto una dialettica che elimina e trascende ogni immagine e ogni forma, ma un profondo mistero d’amore dove una preintelligenza interumana ha qualcosa da dire. Ma questo mistero è situato oltre l’alternativa tra vista “diretta” o “indiretta”. È vista indiretta in quanto una persona libera non può mai essere guardata se non nella sua donazione di sé e può essere guardata in modo tanto piú immediato quanto piú lo sguardo si sposta dai “segni” (semeía) a ciò che in essi si segnala. Da qui l’ambiguità in Giovanni dei (miracoli) segni che possono ammaliare lo sguardo e cosí impedirgli di vedere che cosa in essi si annuncia in verità. Si deve poter leggere la gloria che appare nei segni in trasparenza verso il “segno” d’assoluta validità (della croce), che non manifesta piú nulla della gloria dei miracoli, ma che in compenso contiene tutta intera la gloria di cui essi sono alla lontana i segni. Anche le parole che si formano restano tutte, pur se in altro modo, “segno”, allusione, “simbolo” (16, 25). Tuttavia, nonostante la sua condizione indiretta, la vista qui è diretta in quanto in tutto ciò che il Figlio è, nel suo parlare, agire, patire (anzi ancor piú: nella persona stessa che si manifesta), in tutto questo a rendersi visibile non è che il suo assoluto amore d’obbedienza al Padre. O piú esattamente: nello spazio di questo amore si rende immediatamente visibile l’assoluto amore del Padre per il Figlio e per il mondo. Il fare spazio del Figlio al Padre lo rende sua Parola con l’esattezza propria di chi riferisce soltanto ciò che gli vien detto. “Io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa debbo dire e annunciare... Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me” (12,49s; 7,16; 8,26.28; 15,15). Stessa cosa per le opere e i miracoli: il Padre li compie nel Figlio (14,10). In colui che fa spazio, in tutto il suo atteggiamento, si può vedere ciò che lo riempie: l’amore del Padre. E lo stesso far spazio può essere visto come amore al Padre. Le due cose ne interfluiscono al punto che alla fine viene davvero da pensare che qui non si uniscono in una specie di comunità operativa due esseri autonomi, ma che entrambi esistono, oltre ogni origine, in una comunione sostanziale di vita. “Vedere” significa dunque complessivamente poter leggere una persona e un destino come epifania dell’amore assoluto.

 

b) Quest’amore però non è un oggetto che possa essere contemplato (e in ciò “oggettivato”) senza compartecipazione. È visto per quel che è, solo in quanto si è afferrati da lui. L’occhio naturale può essere “solare” per vedere il sole; la vista dell’amore assoluto invece può esser resa idonea a tanto solo dall’amore assoluto. Nel Figlio che si offre, il Padre “attira” verso il Figlio quelli che credono a lui, cioè che in lui percepiscono l’amore (Gv 6,44). Nel Figlio “inerme” innalzato sulla croce questi stesso attira tutti a sé (12,32); tutti gli occhi, lo vogliano o no, vengono sedotti da colui che è stato trafitto (19,37). Cosí che, prima o poi, in tempo utile o troppo tardi, tutti “riconosceranno che Io sono” (8,28).

 

H. U. von Balthasar, Gloria, Jaca Book, Milano, 1985, vol. VII, pagg. 260-263