VATTIMO, IL PENSIERO DEBOLE E LA TRADIZIONE CRISTIANA

Forse non aveva tutti i torti Carlo Augusto Viano, quando, nel suo feroce pamphlet del 1985 (Va pensiero, Einaudi), sospettava il pensiero debole (almeno nella mia formulazione, non certo in quella di Rovatti), di essere una teologia mascherata o qualcosa di simile. Questo sospetto polemico si è rivelato giusto almeno in due sensi, che Viano non immaginava: il pensiero debole ha suscitato attenzione anche e forse soprattutto presso i teologi o comunque da parte di pensatori (come Dario Antiseri, che già vari anni fa pubblicò un libro sul tema: Le ragioni del pensiero debole, Armando 1993) interessati al rapporto tra filosofia e cristianesimo: e da parte sua (mia), questa filosofia si è sviluppata nel senso di riconoscere sempre di più la propria origine, impronta, ispirazione, cristiana. I due processi sono andati avanti parallelamente ma in modo indipendente, e me ne accorgo dal fatto che una buona parte della ampia bibliografia "teologica" sul pensiero debole, che Carmelo Dotolo cita e discute nel suo libro, mi era ignota. Il suo lavoro dunque mi è utile anche per questo, giacché è vero che, dopo Credere di credere, il problema a cui mi trovo di fronte è quello di sviluppare quel dialogo tra filosofia e tradizione religiosa cristiana che mi è riapparso come possibile e necessario alla luce della tesi sul nichilismo e la secolarizzazione come conseguenza dell'annuncio cristiano dell'incarnazione. In breve, per chi non sia tanto familiare con questi temi (e non abbia ancora affrontato le cinquecento pagine del libro di Dotolo): l'esito della modernità, secondo Nietzsche e Heidegger ma anche secondo molti filosofi di altra tendenza, è la dissoluzione della metafisica: cioè dell'idea che ci sia una struttura stabile dell'essere, un fondamento ultimo che la ragione coglie e su cui fonda la propria conoscenza oggettiva del mondo. La critica dell'ideologia (vediamo il mondo secondo schemi condizionati dalla nostra storia, dai nostri interessi, ecc.) e la scoperta della varietà delle culture hanno eroso in modo decisivo (alcuni lo negano) l'idea di una conoscenza definitivamente fondata. Heidegger ha posto, poi, le basi per considerare la metafisica come violenza: ogni pretesa di incontrare il fondamento ultimo è sempre anche una pretesa di tacitare le domande, di imporre una autorità che non si discute. E ancora: l'idea di oggettività applicata all'essere rende impensabile l'esistenza e la libertà umane, che sono sempre apertura e storicità. Un mondo dove impera l'idea dell'essere come oggettività è quello in cui si riduce a oggetto anche l'uomo, facendone un pezzo del mondo reso calcolabile e prevedibile, la società del "grande Fratello". Ciò che provoca la teologia in un impianto filosofico come questo è la tesi che la dissoluzione della metafisica, dell'oggettività, dei fondamenti ultimi, a favore di un mondo dove la verità si fa nel dialogo delle culture e delle generazioni, sia in fondo solo uno sviluppo della dottrina cristiana dell'Incarnazione di Dio.

Secondo la quale Dio, facendosi uomo, ha come consumato la propria trascendenza, si è mischiato alla storia, e (si pensi a tutte le affermazioni evangeliche sul farsi piccoli, e all'idea di kenosis, abbassamento, umiliazione, di Dio che c'è in san Paolo) ha indicato come via della salvezza proprio quella della consumazione, riduzione, indebolimento dell'essere. Anche la secolarizzazione (la progressiva presa di congedo dal sacro, nella vita individuale come nella società) appare, da questo punto di vista, come un evento provvidenziale: Dio si incarna davvero anche in quanto si allontana sempre più da quella figura di padre-padrone, signore del fulmine e del tuono, incomprensibile e imprevedibile giudice, sotto cui lo hanno pensato le religioni e le superstizioni naturalistiche. Accettare il cristianesimo vuol dire perciò prender sul serio il compito di proseguire sulla strada della dissoluzione del "sacro" svelato nel suo carattere autoritario e di imposizione violenta. In altre parole, si potrebbe dire che il senso della redenzione cristiana è quello di liberare l'uomo dalla paura di fronte alla potenza soverchiante della natura, del Dio "naturale" alla cui volontà ci si "piega" per lo più senza capirla. La modernità "faustiana" che tanti pensatori religiosi hanno demonizzato come nemica è invece l'attuazione del messaggio di libertà portato da Gesù al mondo. La storia della salvezza è la storia dell'interpretazione sempre meno "sacrale" della Bibbia, fino a riconoscere che il suo solo senso è l'amore di Dio per le creature e l'amore che le deve legare le une alle altre. Dotolo, e gliene sono grato, ricostruisce con estrema accuratezza, e anche con simpatia, questo insieme di idee. Che prende sul serio come una "sfida" per la teologia. In nome della quale solleva un'obiezione più che ragionevole, di cui né io né lui, per ora, credo siamo venuti a capo. Se la storia della salvezza si identifica con la storia della interpretazione secolarizzante del messaggio cristiano, che cosa resta di questo messaggio come tale? C'è, in altri termini, un nocciolo "oggettivo" di verità cristiana, non soggetto alla vicenda delle interpretazioni che ne dà la Chiesa nel tempo? È come domandare se, comunque, la trascendenza di Dio rimanga intatta e non si riduca tutta alla immagine di lui che ne hanno i fedeli che leggono la Bibbia. Un Dio che si "riduce" all'annuncio, ascoltato e via via letto in termini storicamente mutevoli, sembra di capire, non è abbastanza rassicurante, non è abbastanza "altro" da noi perché possiamo rivolgerci a lui come a un salvatore. Secondo Dotolo, la secolarizzazione dovrebbe solo avere un valore metodico: eliminando le incrostazioni sacrali, superstiziose, naturalistiche che si sono depositate sul messaggio cristiano, arriveremmo a capire meglio la sua verità oggettiva e immutabile. Ma se questa verità, come credo ammetta anche Dotolo (e la teologia), non fosse nient'altro che l'amore di Dio per le creature esplicitato nell'Incarnazione, di cui la secolarizzazione è, nell'ipotesi, l'attuazione, diventerebbe difficile distinguere ancora il "metodo" dal contenuto stesso della rivelazione e della salvezza. Anche il senso della storia della Chiesa (come avevano pensato certi romantici: Hoelderlin, Schelling, Hegel, Novalis) starebbe tutto nel dissolvere le proprie strutture autoritarie, legittimate proprio dalla pretesa di disporre di un accesso privilegiato al nocciolo oggettivo e immutabile della rivelazione cristiana. (La fine del potere temporale del Papa, che di recente qualcuno ha ricordato come un evento nefasto, sarebbe non solo un evento provvidenziale, ma anche un fatto altamente emblematico di un destino più ampio). I problemi che sempre più si porranno nel rapporto tra le chiese cristiane, e di queste con le altre religioni, non dovrebbero rendere questa prospettiva più ragionevole anche agli occhi dei teologi? È difficile pensare che la Chiesa sopravviva senza "dissolversi" nel mondo come il lievito nella pasta - secondo la metafora evangelica. La frase di Agostino, "ama e fai ciò che vuoi", indica il limite della secolarizzazione e anche la direzione in cui deve andare. Aver paura che questo limite non basti a "garantire" la realtà della salvezza potrebbe essere proprio un'estrema resistenza della superstizione oggettivistica alle esigenze della carità.

(G. Vattimo, "La Stampa", 12 ottobre 1999)