Weismann, Una nuova concezione della filosofia

Friedrich Weismann (1896-1959) è tra i fondatori e uno dei membri piú attivi del Circolo di Vienna, al quale contribuisce con le sue competenze di matematico e logico. Mantenne stretti rapporti con L. Wittgenstein, dal quale fu influenzato nella direzione di una filosofia analitica in senso liberale e meno “scientista” del neopositivismo professato all’interno del Circolo di Vienna.

 

F. Weismann, Analisi linguistica e filosofia

 

Per esprimere quella che sembra la caratteristica peculiare di questi problemi [i problemi filosofici], si potrebbe dire che essi non sono tanto problemi, quanto sintomi di un profondo disagio mentale. Tentiamo per un momento di porci nello stato mentale in cui si trovava Agostino quando si chiedeva: com’è possibile misurare il tempo? Il tempo è costituito da passato, presente e futuro. Il passato, essendo già trascorso, non può essere misurato; il futuro non può essere misurato poiché non c’è ancora; e il presente non può essere misurato poiché non ha estensione. Naturalmente Agostino sapeva come viene misurato il tempo, e non era questo che lo interessava. Ciò che lo rendeva perplesso era la domanda: in che modo è possibile misurare il tempo, visto che l’ora passata non può essere spostata e collocata, per confronto, lungo l’ora presente? Oppure si guardi la cosa in questo modo: ciò che viene misurato è nel passato; ciò che misura è nel presente: come può essere questo?

Il filosofo che medita su un problema di questo tipo ha l’aria di un uomo profondamente inquieto. Sembra che si stia sforzando di afferrare qualcosa che va oltre le sue forze. E le parole in cui un siffatto problema si presenta non mettono affatto in luce la vera situazione – che forse potrebbe essere descritta in modo piú conveniente come una ripugnanza di fronte all’incomprensibile. Se viaggiando su una ferrovia in linea retta vi trovate improvvisamente in vista della stessa stazione che vi siete da poco lasciata alle spalle, sarete preso da terrore, accompagnato eventualmente da un leggero senso di vertigine. Questa è esattamente la sensazione che prova il filosofo allorché si chiede: “Naturalmente il tempo può essere misurato; ma come mai può esserlo?”. È come se finora egli fosse passato spensieratamente sopra alle difficoltà, mentre ora improvvisamente egli le avverte e si chiede allarmato: “Ma come è possibile ciò?”. Ecco un esempio di problema che noi ci poniamo solo quando sono i fatti stessi che ci rendono perplessi, quando qualcosa in essi, sembrandoci un’assurdità ci sorprende. [...]

 

[...] Sarà bene a questo punto ricordarsi che le parole ‘domanda’, ‘risposta’, ‘problema’ e ‘soluzione’ non sono sempre usate nella loro accezione piú comune. È affatto ovvio che dobbiamo fare spesso cose molto diverse per trovare la via d’uscita da una difficoltà. Un problema di politica si risolve adottando una certa linea d’azione, i problemi dei narratori si risolvono eventualmente escogitando degli espedienti atti a presentare i piú intimi pensieri e sentimenti dei loro personaggi; c’è il problema del pittore di suggerire, sulla tela, profondità o movimento; il problema stilistico dell’espressione di cose non ancora usuali, non ancora standardizzate; vi sono mille questioni di tecnologia a cui si risponde non con la scoperta di qualche verità, ma con un’azione pratica; e c’è, naturalmente il ‘problema sociale’. In filosofia l’effettivo problema non è trovare la risposta a una data domanda, ma trovarle un senso.

Per vedere in che cosa consiste la ‘soluzione’ di un ‘problema’ del genere, partiamo insieme con Achille il quale, secondo Zenone, sta a tutt’oggi inseguendo la tartaruga. Si supponga che Achille corra con una velocità doppia di quella della tartaruga. Se il vantaggio di questa è 1, Achille dovrà coprire successivamente 1, 1/2, 1/4, 1/8, ...; questa serie è senza fine, pertanto egli non potrà mai raggiungere la tartaruga. “Assurdo!” (è un matematico che parla), “la somma di questa serie infinita è finita, ed è precisamente uguale a 2; e questo mette fine alla questione”. Sebbene sia perfettamente vera, l’osservazione del matematico non è appropriata. Essa non elimina il pungolo dell’enigmaticità, l’idea sconcertante, cioè, che per quanto ci spingiamo avanti nella serie, c’è sempre un termine successivo, che il vantaggio che la tartaruga ha nella gara, pur diventando sempre piú piccolo, non cessa mai tuttavia di esistere; non può esserci un momento in cui esso sia rigorosamente uguale a zero. È questa caratteristica del fatto in esame, suppongo, che noi non comprendiamo e che ci getta in uno stato di confusione.

Ma consideriamo la cosa in questo modo. Supponiamo di applicare un ragionamento dello stesso genere a un minuto; dovremo allora argomentare in questa maniera. Prima che il minuto possa trascorrere, deve passare la prima metà di esso, quindi un quarto, un ottavo di esso, e cosí via ad infinitum. Essendo questo un processo senza fine, il minuto non potrà mai giungere alla fine. Non appena poniamo il ragionamento in questa forma, l’errore salta agli occhi: abbiamo confuso due sensi di ‘mai’, uno temporale e uno non temporale. Mentre è del tutto corretto dire che la successione 1, 1/2, 1/4, 1/8 ... non finisce mai, questo senso della parola ‘mai’ non ha nulla a che fare col tempo. Tutto ciò che essa significa è che non c’è un ultimo termine nella serie, o (che è lo stesso) che per ogni termine, qualunque sia il suo posto nella successione, si può costruire un successore secondo la semplice regola “dividere per due”: questo è quanto s’intende qui con la parola ‘mai’; laddove dicendo, per esempio, che non si escogiterà mai un mezzo per vincere la morte, ‘mai’ viene inteso nel senso di ‘in nessun tempo’. È chiaro che l’affermazione matematica circa la possibilità di procedere nella successione formando nuovi termini secondo la regola, non è affatto un’asserzione intorno ad eventi reali nel tempo. L’errore dovrebbe in realtà essere ovvio: dicendo che, poiché il vantaggio diventa progressivamente piú piccolo e tuttavia non può mai cessare di esistere, Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga, noi saltiamo dal senso matematico e non-temporale a quello temporale. Se nella nostra lingua ci fossero state due parole differenti per distinguere i due sensi, la confusione non sarebbe mai potuta sorgere e il mondo sarebbe privo di uno dei suoi piú attraenti paradossi. Invece, la stessa parola viene usata, come se fosse cosa del tutto naturale, con significati differenti. Il risultato è qualcosa simile a un trucco da prestigiatori. Mentre la nostra attenzione è rivolta altrove, mentre noi, “con l’occhio della mente”, guardiamo fissamente Achille che se ne va correndo, e ogni gran balzo ne fa diminuire la distanza dalla tartaruga, l’uno dei due sensi viene gabellato per l’altro con tanta innocenza che la frode non è avvertita. [...]

 

[...] Ora comincia ad apparire un po’ meno paradossale il dire che, quando un filosofo vuole liberarsi da una questione, l’unica cosa che non deve fare è dare una risposta. Una questione filosofica non si risolve: si dissolve. E in che cosa consiste questo ‘dissolvimento’? Nel chiarire a noi stessi il significato delle parole usate per porre la questione in modo da essere liberati dal fascino magico che essa getta su di noi. La confusione è stata eliminata richiamando alla mente l’uso del linguaggio, o, nella misura in cui l’uso può venire tradotto in regole, le regole; essa era, quindi, una confusione circa l’uso del linguaggio, o una confusione circa le regole. È qui che la filosofia e la grammatica s’incontrano. [...]

 

[...] Dunque solo critica e niente nutrimento? E il filosofo è uno che disperde la nebbia? Se questo fosse tutto ciò che egli è capace di fare, gli direi “Mi spiace per te”, e lo lascerei ai suoi espedienti. Fortunatamente, non è cosí. Tanto per cominciare, una questione filosofica, quando le si presti abbastanza attenzione, può portare a qualcosa di positivo: per esempio, a una piú profonda comprensione del linguaggio. Consideriamo i dubbi scettici circa gli oggetti materiali, la mente altrui, ecc. La prima reazione è forse quella di dire: questi sono dubbi inutili. Ordinariamente, allorché dubito se finirò questo articolo, dopo un certo tempo il mio dubbio cesserà di esistere. Non posso continuare a dubitare in eterno. È destino del dubbio quello di morire. Ma i dubbi sollevati dallo scettico non muoiono mai. Sono realmente dubbi? Sono pseudo-problemi? Essi appaiono tali solo quando vengono giudicati col duplice metro del senso comune e del linguaggio comune. Il difetto vero e proprio ha radici piú profonde: esso sorge dal fatto che lo scettico getta il dubbio sui fatti stessi che sorreggono l’uso del linguaggio, su quelle caratteristiche permanenti dell’esperienza che rendono possibile la formazione dei concetti, e che in effetti vengono dissolte nell’uso delle nostre parole piú comuni. Supponiamo che ve. diate di fronte a voi, con molta chiarezza, un oggetto, per esempio una pipa, e che quando state per raccoglierla, essa svanisca nell’aria; è probabile allora che esclamiate “Mio Dio, sto diventando matto”, o qualcosa del genere (a meno che l’intera situazione non sia tale che abbiate ragione di sospettare che la cosa sia dovuta a qualche trucco ben congegnato). Ma che accadrebbe, potrebbe allora incalzare lo scettico, se tali esperienze divenissero molto frequenti? Sareste preparati a dissolvere la connessione fra diverse esperienze sensoriali che costituiscono il nucleo dell’idea che noi abbiamo di un oggetto solido; a disfare ciò che il linguaggio ha fatto; a farla finita con la categoria della cosalità? E vi adagereste quindi a vivere in questo paradiso del fenomenalista, pieno di chiazze colorate e degli altri armamentari della teoria dei dati sensoriali, in un mondo disoggettivato e desostanzializzato? Dire in tali circostanze: “Guarda, ora sta appunto tavolando”, sarebbe uno scherzo (infatti anche nelle forme verbali deboli ‘tavolare’, ‘sediare’ sopravvive un elemento della categoria di cosa). Ecco perché lo scettico fa sforzi immani per esprimersi in un linguaggio che non si adatti a questo scopo. Il suo modo di esprimersi è fuorviante quando egli dice che dubita di tali e tali fatti: i suoi dubbi colpiscono cosí profondamente da influenzare la struttura stessa del linguaggio. Ché ciò di cui egli dubita è già implicito nelle forme stesse del discorso, per esempio, in ciò che è condensato nell’uso dei nomi di cosa. Nel momento in cui tenta di penetrare quegli strati profondi, egli mina il linguaggio stesso nel quale ci rivela i suoi scrupoli: il risultato è che egli sembra dire cose senza senso. E non è cosí. Però, al fine di rendere i suoi dubbi pienamente esprimibili, si dovrebbe prima di tutto rifondere il linguaggio in un crogiuolo. (Una pallida idea di quel che si dovrebbe fare ce la può dare la scienza moderna, nella quale tutte le categorie da lungo tempo stabilite – cosalità, causalità, posizione – hanno dovuto essere rivoluzionate. Ciò non richiese meno della costruzione di un nuovo linguaggio, e non già che i nuovi fatti venissero espressi con il linguaggio vecchio). [...]

 

Ciò che ho voluto dire in questa parte, e non ho detto o ho detto soltanto a metà è:

1) La filosofia non è solo critica del linguaggio: concepita in questo modo il suo scopo è troppo ristretto. Essa è critica, dissoluzione e superamento di tutti i pregiudizi, attenuazione della rigidità e della eccessiva ristrettezza di tutti i modelli, abbiano esse origine nel linguaggio o altrove.

2) Ciò che è essenziale in filosofia è la rottura completa per raggiungere una piú profonda intuizione – che è una cosa positiva, – e non semplicemente la dissipazione della nebbia o l’esposizione di falsi problemi.

3) L’intuizione non può essere imbalsamata in un teorema, e non può quindi essere dimostrata.

4) Nessuna delle argomentazioni filosofiche è logicamente vincolante; esse in effetti velano ciò che realmente accade: la sotterranea e paziente distruzione di categorie appartenenti all’intera area del pensiero.

5) Il loro scopo è quello di aprirci gli occhi, di condurci a vedere le cose in modo nuovo; da un punto di vista piú ampio, non ostruito da fraintendimenti.

6) La differenza essenziale tra filosofia e logica è che la logica ci incatena, mentre la filosofia ci lascia liberi: in una discussione filosofica noi siamo condotti, passo passo, a mutare la nostra prospettiva, per esempio a passare da un modo di porre un problema a un altro e ciò col nostro consenso spontaneo; e questa è una cosa ben diversa dal dedurre teoremi da un dato insieme di premesse. Parafrasando Cantor si potrebbe dire: l’essenza della filosofia sta nella sua libertà. [...]

 

[...] Chiedere: “Qual è il vostro obiettivo in filosofia?” e rispondere: “Mostrare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia” è... bene, per rispetto taccio ciò che stavo per dire. Salvo questo: c’è qualcosa di profondamente eccitante intorno alla filosofia, e questo fatto rimane incomprensibile da un punto di vista tanto negativo. Non è questione di ‘chiarificazione dei pensieri’, né di ‘uso coretto del linguaggio’ né di alcun’altra di queste maledette cose. Che cos’è dunque? La filosofia è molte cose e non c’è formula capace di comprenderle tutte. Ma se si chiede di esprimere in una sola parola qual è la sua caratteristica piú essenziale direi senza esitazione: la visione. Al fondo di ogni filosofia degna di questo nome è la visione ed è là che essa scaturisce e prende la sua forma visibile. Quando dico ‘visione’ è proprio questo che intendo: non voglio fare il romantico. Quello che è caratteristico della filosofia è la penetrazione in quella crosta sclerotizzata che è costituita dalla tradizione e dalla convenzione, rompendo quei ceppi che ci vincolano a preconcetti ereditati, cosí da arrivare a un modo nuovo e piú potente di vedere le cose. Si è sempre avuta la sensazione che la filosofia debba rivelarci ciò che è nascosto. (E io non sono affatto insensibile ai pericoli di una concezione del genere). Eppure da Platone a Moore e Wittgenstein, ogni grande filosofo è stato guidato da un senso della visione: senza di esso nessuno avrebbe potuto dare una nuova direzione al pensiero umano o aprire finestre verso il non-ancora-visto, e nessuno, per quanto possa essere un buon tecnico, lascerebbe mai traccia di sé nella storia delle idee. Ciò che è decisivo è un nuovo modo di vedere e, in concomitanza con questo, la volontà di trasformare l’intera scena intellettuale. Questo è l’elemento essenziale e ogni altra cosa è subordinata ad esso. [...]

 

Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XXVIII, pagg. 258-283.